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La Lucania

Alberi: curiosità e tradizioni popolari in Lucania

La Basilicata è la terra dei riti arborei. Gli alberi non sono solamente delle presenze che arricchiscono lo sfondo del paesaggio, ma sono dei veri e propri protagonisti. Nel rito arboreo, l'albero è il centro, è ciò che dà senso alla festa, alla vita.

I riti arborei del Maggio ad Accettura: il matrimonio degli alberi.

Ad Accettura e in almeno altri sette centri lucani, da tempo immemorabile ogni anno, al risvegliarsi della natura, si inscenano riti arborei emozionanti, feste popolari che ripropongono attraverso gli elementi naturali i passaggi simbolo della vicenda umana come il matrimonio e la procreazione. I riti arborei lucani trascinano l’ignaro ospite, in una esperienza sensoriale singolare, un unicum di storia, fede e tradizione. Antichi culti propiziatori che risultano essere, in una civiltà secolarizzata come quella in cui viviamo, un rinnovato attrattore di flussi turistici e conseguentemente di economia per il territorio. Sarebbe opportuno riporre su di essi maggiore attenzione data l’esclusività di simili eventi tenendo conto di quanto si sia investito su giostre volanti e voli di angeli. Le feste degli alberi sono, in Basilicata, disseminate sul territorio, investono un largo arco temporale e coinvolgono intere comunità. La tradizionale festa del maggio di Accettura celebra il matrimonio tra due alberi. Il giorno dell’Ascensione, secondo il vecchio calendario liturgico, il cerro più alto, più grosso e più dritto del bosco di Montepiano, già individuato nella domenica successiva a quella di Pasqua, viene abbattuto. Esperti boscaioli, unitamente a comuni cittadini, si danno appuntamento di buon mattino, nella piazzetta di San Vito da dove si parte per recarsi nel bosco. La secolare cerreta, distante cinque chilometri, è una vasta distesa di oltre mille ettari di alberi ad alto fusto di “Quercus cerris”, appartenenti alla famiglia delle Fagacee. Per secoli questo polmone verde è stato, per la piccola comunità di Accettura, fonte unica della modesta economia locale. Esauritasi l’industria della legna e del carbone per uso domestico e della traversina per costruire la ferrovia, oggi il bosco di Montepiano rientra tra i principali attrattori del Parco regionale di Gallipoli-Cognato e delle piccole dolomiti lucane. E’ qui che dimora il principale protagonista del rituale arboreo accetturese che verrà abbattuto. Con un atteggiamento quasi sacrale, esperti boscaioli scavano le radici del grande cerro le quali, a colpi di ascia vengono recise. Un giovane sale fin sulla cima dove lega una corda che viene tirata per orientare la caduta del Maggio. Un gigante del bosco sosterà a terra per altri dieci giorni, fino alla domenica di Pentecoste, quando i bovari con i loro buoi lo trascineranno in paese a devozione di San Giuliano. Dopo l’abbattimento la festa continua con banchetti spontanei a base di prodotti tipici della tradizione locale. La comunità, dunque, è in fermento per l’avvicinarsi del rito, pronta ad accogliere emigranti, amanti e studiosi delle tradizioni popolari. Una festa della natura, della terra, mutata negli anni fino a diventare oggi, un bagno collettivo identitario per questa comunità che ferma il frenetico scorrere del tempo e si ritrova ad inscenare un sempre antico e nuovo rituale tramandato dagli antenati. Non una riproposizione folcloristica di un evento storico, ma una esplosione collettiva di gioiosa appartenenza ad una storia che identifica l’essere accetturese. Un patrimonio immateriale su cui investire anche in termini di sviluppo turistico considerato anche lo straordinario coinvolgimento di giovani del posto e di turisti che la festa del Maggio di Accettura richiama. La tecnologia non intacca né tantomeno inquina questo culto arboreo tra i più complessi e veraci. Non ci saranno motoseghe a profanare il bosco, ma solo asce, martelli e ronche che uniti alla forza ed alla devozione dell’uomo diventeranno potenti lame. Succederà così che giovani e anziani del posto, mossi da un comune sentire procederanno prima al taglio degli altri alberi, che fungeranno da forche per l’innalzamento del maestoso cerro e, infine, dopo una paziente pulitura, al taglio delle radici, all’abbattimento delMaggio, in genere un esemplare di cerro che anche quest’anno innestato con la cima supererà i 30 metri. L’appuntamento è sempre presso l’ex casermetta forestale, nell’incantevole scenario del verdeggiante bosco di Montepiano dove il parroco celebrerà la messa. Poi, per tutta la giornata si lavorerà alacremente per tagliare pazientemente e nel pieno rispetto della natura il “materiale” occorrente. La fase più emozionante e delicata, naturalmente, dovuta anche alle proporzioni, quella del taglio del “maggio” quello cioè ritenuto il migliore tra centinaia di esemplari, il re della Foresta di Montepiano e per questo deputato a rappresentare “L’Albero”, che svetterà incontrastato. Tutte le operazioni procederanno tra traboccanti banchetti spontaneamente imbanditi dagli abitanti di Accettura che per l’occasione sospendono il lavoro quotidiano per rinnovare questo rito. Il taglio del Maggio aggiunge un ulteriore tassello del grande cerimoniale delle celebrazioni per i festeggiamenti in onore di San Giuliano Martire e rappresenta l’ultimo passaggio rituale, prima della tanto attesa domenica incui il grosso e lungo tronco farà il suo ingresso in paese trainato da coppie di buoi e del successivo martedì in cui si porterà in processione la statua di San Giuliano. Sono le tre giornate più importanti dell’anno per la comunità di Accettura, a cominciare dalla domenica si procederà al singolare matrimonio tra il cerro e l’agrifoglio. Entrambi metafora di unione, di fertilità così come avviene tra gli uomini. Un antico e affascinante rituale arcaico che affonda le radici nelle società rurali le quali propiziavano la fertilità degli uomini e la prosperità dei campi attraverso la riproposizione, in chiave vegetale dell’atto sessuale umano, di un matrimonio della natura. Una appuntamento che conserva il suo fascino millenario e che si rafforza di anno in anno di nuovi contenuti a corollario e sostegno del rito.

Qualche anno fa la BBC ha girato ad Accettura, durante il rito del Maggio, un interessate documentario intrecciando temi quali il paesaggio, la gastronomia e la festa. Anche l’Unesco, in una pubblicazione del 2001, les fetes du soleil, ha incluso la festa del Maggio di San Giuliano tra le 47 feste più belle del Mediterraneo. Lo scorso anno l’americana Cnn, l’ha annoverata tra le dieci più bizzarre del mondo offrendo una vetrina mondiale che purtroppo non ha raccolto le dovute attenzioni presso gli enti turistici regionali. Qui, la Domenica di Pentecoste, oltre cinquanta coppie di buoi trascinano in paese dal bosco di Montepiano un fusto di cerro lungo quasi trenta metri. Contemporaneamente dalla foresta di Gallipoli-Cognato si muove, dopo aver tagliato la Cima, il corteo che a spalle, porta questo agrifoglio per un tragitto di 20 chilometri. All’imbrunire, i due cortei si incontrano in paese. È un’esplosione collettiva di gioia che coinvolge tutta la comunità e i numerosi turisti e studiosi di tradizioni popolari. L’indomani si preparano le strutture che serviranno per innalzare il grande tronco composto dall’unione del Maggio e della Cima. Il Martedì è il giorno dedicato alla festa religiosa in onore del patrono, San Giuliano, giovane martire originario della Dalmazia qui molto venerato dal 1797, anno in cui giunse una reliquia da Sora. Il grande albero innestato, viene innalzato a forza di braccia mentre la solenne processione gira per le vie del centro abitato. Al cospetto del simulacro, il rito viene compiuto con il completamento dell’alzata e lo scioglimento delle corde. Al tramonto conclude la festa la spettacolare scalata. Alcuni giovani del posto, col solo aiuto di una corda, affrontano il grande albero che svetta altissimo tra i tetti ai piedi del quale tutta la comunità è riunita. Emozionanti acrobazie e lancio del bouquet di rose concludono la festa di quest’anno. Puntare dunque sui riti arborei e sulla splendida cornice naturale di questi posti può dare nuovo slancio allo sviluppo economico delle aree interne. Risorse generose e inesauribili che i turisti della società moderna ricercano in ogni dove nel miraggio del raggiungimento della qualità della vita. Potrebbero trovare qui tutto questo, nei nostri paesi, che vivono cerimonie e usanze dal fascino eterno da cento,mille anni e chissà per quanto tempo ancora. Insieme, i due alberi, innestati l’uno all’altro come in un matrimonio fantasioso, formeranno “Il Maggio” simbolo di uno dei culti arborei più antichi della Basilicata. La “Domenica della Cima” rappresenta la seconda tappa propedeutica alla festa del Maggio una tre giorni dedicata da secoli e secoli a San Giuliano Martire. Un insolito connubio tra sacro e profano, che non conosce confini definiti. La scelta della cima si consumerà, come dicevamo, nell’incantevole foresta demaniale di Gallipoli Cognato, luogo geograficamente opposto al bosco di Montepiano quasi a rappresentare due contrade tanto diverse che in nome di un amore, quello appunto per il santo si uniscono, dando vita ad una nuova pianta come accade per chi forma una nuova famiglia auspicando prosperità dei raccolti. I requisiti richiesti per la “candidata” sono principalmente la chioma folta e misure proporzionate al suo “sposo” il tronco, (simbolo fallico propiziatore di fertilità e benessere) e la selta sarà decretata da esperti e saggi anziani del posto. Tantissime le persone, che calpesteranno ettari ed ettari di terreno boschivo in cerca di quella che sarà la giusta “sposa” tra impervi tratturi, un tempo attraversati solo da muli, fino a quando la scelta non cadrà su un solo esemplare. Si provvederà, dunque, alla designazione di un agrifoglio, di un’altezza media di dieci metri, che sarà portato a spalla dai giovani di Accettura fino in paese nel giorno di Pentecoste. Le lunghe camminate, saranno anche l’occasione per “censire” e prendersi cura dei non numerosi esemplari di Ilex Aquifolium appartenenti alla famiglia delle Aquifoliaceae, oggetto spesso anche di aspre contese con il vicino paese di Oliveto Lucano anch’esso sede di un simile rito arboreo. Successivamente, località San Nicola, le comitive imbandiranno tavolate traboccanti di salumi, formaggi e varie delizie gastronomiche innaffiate dal buon vino dei vigneti locali. Una ulteriore particolarità di questa festa è la divisione in due fazioni di simpatizzanti, “i maggiaioli” ed i “cimaioli”. I primi seguono la parte relativi alla scelta, all’abbattimento ed al trasporto in paese con coppie di buoi del cerro; i secondi, invece, seguono la parte relativa alla scelta, abbattimento e trasporto a braccia, in paese, dell’agrifoglio. Per entrambi, però, il filo conduttore rimane l’allegria ed una indiscutibile devozione.

Le ipotesi sul significato del nome ‘Maggio’.

Le ipotesi sul significato del nome ‘Maggio’ sono state molte: alcuni sostengono che tale termine significhi ‘alto albero’, altri affermano che prenda il nome dal mese maggio (durante il quale molto spesso si celebra la festa), altri ancora da ‘major’, albero più grande. Il Toschi ci fornisce un altro significato: «Maggio è la festa della fecondazione arborea e quindi dedicata alla dea Maja, quella di maggio esprime, in originali forme di bellezza, l’anelito della moltitudine a che la nostra terra sia sempre ferace: una delle più antiche e venerate divinità laziali che personificava il rigerminare della vegetazioine al ritorno della primavera, e la fertilità della terra in maggio». La dea Maja darebbe il nome: “Majo”, Maggio. L’unico aspetto finora considerato, almeno parzialmente, è stato l’approccio antropologico. Mentre la religiosità popolare ha accompagnato sempre l’uomo e la società, lo studio e l’interesse per tale ‘fenomeno’ appaiono il frutto di una presa di coscienza tutta contemporanea. Lo studio della religiosità popolare, oggi, sembra nascere oggi come “decantazione dell’ideale della scienza e della tecnica, come andare alla ricerca di una nuova identità, di un ritorno alla natura, di nuovi spazi di libertà e di armonia con se stessi e col mondo. Il concetto di cultura applicabile ad ogni ceto di persone ha aperto le porte allo studio della religiosità popolare come fatto culturale e sociale di immensa rilevanza che ha richiamato l’attenzione di numerosi antropologi; questi si sono accorti dell’importanza che andava attribuita allo studio della sedimentazione plurisecolare della cultura tramite la religiosità del popolo e lo studio dei costumi locali: rivolgersi alle proprie tradizioni e al folclore popolare per approfondire le proprie radici etnico–culturali. La celebrazione appare nelle linee fondamentali fedele a uno schema che si ritrova nei culti arborei presenti in numerose regioni europee. Il Frazer, nel dare la sua interpretazione sintetica, spiega che questa usanza mirava a portare nel paese e nella propria casa “lo spirito fecondatore della vegetazione, risvegliatosi con la primavera”; solo in un secondo momento diventa ‘centro’ di divertimenti festivi. Manhanardt, a cui il Frazer dice riferimento, vede nell’albero del maggio lo spirito della vegetazione e rileva che “la processione di questi rappresentanti della divinità si supponeva producesse sulle galline, sugli alberi da frutta e sopra il raccolto gli stessi benefici effetti della presenza della divinità stessa”. La fucilazione, l’abbattimento o il bruciamento dell’albero di maggio sarebbe “considerata come un mezzo per favorire e affrettare la crescita della vegetazione”. Letture di questo tipo ci aiuterebbero a comprendere che “le feste attuali, pur mutate nel significato e nella funzione, hanno stratificazioni remote, e molto verosimilmente possono essere fatte risalire ai miti e ai riti agrari delle antiche popolazioni contadine. Inoltre, potrebbero rendere ragione degli elementi magici che, residualmentre, risultano presenti, anche se, avulsi dalla complessa cosmologia di cui facevano parte e sinteticamente assorbiti dentro il cattolicesimo popolare”. Connessa con l’interpretazione dei culti arborei come riti di fertilità è la lettura della festa dell’albero come culto fallico. Non si scosta da questa linea interpretativa, se non per integrarne l’ingenuo sessualismo nell’ontologia arcaica, Mircea Eliade: «Il cosmo è simboleggiato da un albero; la divinità si manifesta dendromorfa: la fecondità, l’opulenza, la fortuna, la salute sono concentrati nelle erbe e negli alberi. La razza umana deriva da una specie vegetale; la vita umana si rifugia nelle forme vegetali quando è interrotta con malizia (…) il cosmo rappresentato in forma di Albero, perché l’albero si rigenera periodicamente. La primavera è una resurrezione della vita universale e di conseguenza della vita umana». Nelle feste dell’albero, ancora vive nelle tradizioni popolari europee, sarebbe implicita ‘l’idea di rigenerazione della collettività umana mediante una sua partecipazione attiva alla resurrezione della vegetazione e della rigenerazione del Cosmo’. Queste interpretazioni, se da un lato possono gettare luce sull’origine dei culti arborei e restituirci l’archetipo più remoto della festa, dall’altro non possono ritenersi adeguate a spiegare il suo perdurare fino ai nostri giorni, se non ipotizzando la sia pur residuale permanenza implicita delle antiche valenze magico–religiose, in verità non facilmente percepibile né decisamente importante. Queste interpretazioni hanno istituito analogie e rapporti tra usi e riti lontani nel tempo e nello spazio, disegnando attraverso l’analisi comparativa una tipologia di culti arborei che, per quanto astratta, si rivela tutt’altro che inutile. Nelle cerimonie e nei culti arborei degli ultimi secoli al tema del rinnovamento della natura si associava il concetto di franchigia, la festa celebrava anche la liberazione da pesi, tutele, obblighi e limitazioni di vario genere e sanciva l’instaurazione di giurisdizione o poteri autonomi. Il popolo nella la festa celebrava, con il cambiamento della vegetazione, i cambiamenti di vita particolarmente importanti per la comunità. Il sovrapporsi del significato sociale della libertà al significato magico originario di rinnovamento agevolò, successivamente, la trasformazione dell’albero di maggio in albero della libertà della Rivoluzione francese. I culti arborei, però, chiusa l’esperienza giacobina e poi napoleonica, hanno continuato ad avere fino ai giorni nostri una vita autonoma, solo in qualche raro caso confusi, e per questo oggetto di condanna, con gli alberi rivoluzionari. Nella storia civile bisogna considerare che, duranti i moti popolari, molto frequenti in Basilicata, contro il potere dei Baroni e delle Municipalità il primo gesto di protesta consisteva nell’occupare le terre e i boschi di proprietà degli stessi. Occupazioni che si verificarono al tempo della Repubblica Partenopea (1799), al tempo di Murat (1806-1815), così pure dopo l’unità d’Italia fino ai moti contadini del secondo dopoguerra. Questo è spiegabile perché il bosco è la principale fonte di sussistenza (legna da bruciare, fare travi e “spole” per le coperture delle abitazioni, fare mobili, fare ‘traverse’ per la ferrovia, pascolo). I boschi hanno rappresentato un punto di riferimento fondamentale nella cultura tradizionale e nella economia della Basilicata. Nel bosco, luogo di lavoro, gli alberi sono quasi ‘allevati’ come il contadino fa per il grano; niente pertanto ci impedisce di supporre dei cerimoniali esercitati su e con gli alberi prima di abbatterli. Alle precedenti ipotesi va anche collegato il mito popolare del Paese di Cuccagna o del Bengodi: il mito di questo paese, in cui si può mangiare, bere, avere anche il superfluo senza lavorare, diviene una specie di rappresentazione fisica, tangibile e piacevole del paradiso terrestre. Corrisponde al desiderio di rivincita delle masse povere, diseredate e affamate di ottenere durante la loro vita, almeno qualche volta, tutto e in abbondanza. Immagine mitica del ‘Bengodi’ che ricorda il paese in cui i fiumi sono divenuti di vino, le montagne di burro e formaggio, le vigne attaccate con salsicce; tutto questo, già presente nella novella del Boccaccio “Calandrino e l’elitropia”, molto diffusa in tutto il Rinascimento. Queste visioni del ‘Bengodi’ trovano nelle rappresentazioni carnevalesche il loro principale veicolo di diffusione e di realizzazione temporanea in armonia con le funzioni di rifondazione del tempo e dei cicli produttivi. A partire dal XVI secolo in varie stampe ed incisioni, si vede l’albero, presso la porta del paradiso, ricco di ogni bene. L’albero, talvolta è l’elemento centrale della scena in cui la popolazione balla intorno ad esso; l’albero ha tra i rami i beni della ‘fortuna’, dalle corone reali, agli strumenti musicali ecc.; in un’altre, tre ragazzi cercano di arrampicarsi. L’albero di Cuccagna, per certi aspetti, rigenera i temi dell’albero di maggio, arricchendoli e trasformandoli dal punto di vista dell’utopia, della conquista del ‘ben vivere’. Il mito del paese di Cuccagna nel sud d’Italia esiste e lo si deduce dalla diffusione dell’albero di Cuccagna presente un po’ dovunque nelle feste patronali. Nello studio di D. Scafoglio, La Maschera di Cuccagna, si analizza come il mito del paese del ‘Bengodi’, legato alla sua dimensione alimentare, passa dall’utopia popolare alla Cuccagna di Stato. È probabile che i vicerè di Napoli pensassero a questi materiali fantastici quando inventarono per il popolo la loro Cuccagna, più fastosa e complessa, tra la fine del XVII secolo e i primi anni del XVIII secolo. La cuccagna napoletana diviene occasione importante di spettacolo per i napoletani di ogni classe sociale, sempre più richiesta dalla massa dei poveri. La cuccagna napoletana era innalzata su costruzioni fisse, a centro dell’attuale Piazza Plebiscito, davanti al Palazzo reale. Festa per celebrare il Vicerè e applaudire, soprattutto, la sua ‘munificenza alimentare’. A questa cuccagna napoletana partecipava la nobiltà locale ma anche quella proveniente da tutto il regno; i Baroni, portati ad imitare il Viceré, portarono nelle piazze dei loro paesi la Cuccagna napoletana, anche se, in forma più ridotta. In un’epoca come la nostra, in cui il sistema magico-religioso sembra aver perso il suo peso decisivo, si è imposta la tendenza a spiegare l’efficacia catartica della festa come effetto del processo di socializzazione, anzi di “ri-socializzazione”. Il Lanternari così si esprime riguardo al nostro ‘Maggio’: «Con questo rituale – gli abitanti del posto – non fanno altro che ripetere una tradizione che li contraddistingue da tutti gli altri paesi vicini. In questo complesso cerimoniale essi trovano una grande occasione per riconoscersi dunque diversi dagli ‘altri’. Lo celebrano, perché lo celebravano i loro antenati. Ed oggi sarebbe per loro una rinuncia a se stessi se dovessero spegnere la tradizione in oggetto. Dunque il tema centrale, oggi l’unico immediatamente consapevole e funzionale, di una celebrazione siffatta, è quello del suo valore ‘socializzante’: la festa assurge così a ‘simbolo preminente’ della propria storia, cultura, tradizione, della propria personalità collettiva». Questa interpretazione rende meglio compresibili alcuni aspetti della festa; tuttavia, dice lo Scafoglio: «la forza della tradizione e il bisogno di stare insieme non spiegano, da soli, né l’origine della festa, né il suo perdurare attraverso, e nonostante, il modificarsi dei rapporti economici e sociali, né, soprattutto, riescono a restituire la complessità delle sue funzioni. La ri-socializzazione sarebbe una risposta implicita alla disgregazione della comunità tradizionale, determinata dai processi di omologazione culturale, dalla fuga dai paesi rurali, dalla terziarizzazione e dalla dissoluzione dei rapporti di parentela incentrati nella famiglia nucleare e dei legami di solidarietà che prima compattavano le comunità del villaggio». Come si può vedere tutti questi elementi provengono da contesti culturali e da sollecitazioni sociali e politiche diversi. Le feste del Maggio dei nostri giorni, pertanto, non possono essere interpretate come occasioni in cui sopravvive il riferimento originale al Paese di Cuccagna attraverso il suo albero; non sono un documento della sopravvivenza dell’Albero della Libertà e, infine, non possono dire riferimento diretto al Rituale Arcaico di Primavera. Le interpretazioni fatte finora non sono esaustive, per comprendere qualcosa di più bisogna continuare ad indagare.

Origine longobarda

Suggestiva è l’ipotesi dell’origine longobardo-cristiana del Maggio nei luoghi occupati dai Longobardi. Nel 663 i Longobardi, in Benevento loro capitale nel sud dell'Italia, erano stretti da un lungo assedio ad opera dell'esercito bizantino. I viveri sono quasi esauriti; allora il duca Romualdo convocò tutto il popolo e propose di tentare una sortita: meglio morire sul campo di battaglia che di fame e di sete. La sua proposta fu accettata. Nell'assemblea prese la parola il vescovo del luogo Barbato il quale propose, prima di tentare la sortita, di rivolgersi in preghiera alla Madonna promettendo di abbattere i residui pagani da essi importati in Italia. I Longobardi, di religione ariana, scossi dalla necessità accettarono la proposta vescovile, impegnandosi, se esauditi, di eliminare quanto di pagano c'era ancora in mezzo a loro. Tra le usanze più sentite c'era quella del voto, che si svolgeva intorno all'albero: in un dato periodo dell'anno si uccideva un animale bovino o ovino e si appendeva il cuoio ancora caldo all'albero; a turno i cavalieri si lanciavano al galoppo e, giunti al limite stabilito, ritornavano verso l'albero, prendevano un brandello del cuoio appeso, con le mani o con la spada, e lo mangiavano, esprimendo un voto. Questa usanza aveva il merito di rinsaldare i vincoli tra i cavalieri longobardi ma aveva anche carattere magico-sacrale. Dopo qualche giorno il basileus Costante II tolse l'assedio e i Longobardi si convertirono al cattolicesimo e abbatterono l'albero del voto. Con grande probabilità i Longobardi piantarono ogni anno, in ricordo, un albero per ricordare la salvezza operata nei loro riguardi da parte della Madonna, trasformando l’albero del voto in segno di fede e di devozione verso la Madre di Dio. Questa ipotesi viene confermata dal fatto che il re Liutprando, nel 727, dovette intervenire con una ordinanza perché in qualche parte del suo regno si continuava a rifare il “rito dell’albero” come avevano fatto i loro antenati. Accettura, di origine longobarda, può aver assimilato tale rito già cristianizzato, perché dedicato alla Madonna e, dopo qualche tempo, lo ha dedicato, come negli altri paesi, al santo protettore.



“U Rumita”, l’uomo albero di Satriano e' un rito arboreo la cui storia si perde nel tempo

"Molti anni fa nel paese di Satriano di Lucania alcuni uomini usavano ricoprirsi d’edera fino a diventare irriconoscibili, erano i romiti, uomini – albero, espressione di un antico culto arboreo, risalente al Medioevo. Camminavano con un bastone, al quale era legato un ramo di pungitopo o di ginestra e bussavano alle porte delle case per ricevere elemosina. Con il tempo il romito è diventato una maschera tra le tante, lentamente dimenticata dalle nuove generazioni”. “Dal buio della notte nei boschi di faggio alle prime luci dell’alba fino alla scoperta della presenza di un villaggio isolato; dalle porte delle case escono uomini che in processione raggiungono il bosco. Lì si vestiranno di edera, trasformandosi in romiti, uomini-albero che celebrano la fusione di umano e vegetale, la fusione dell’uomo con la terra, il cosmo, il Tutto. Terminata la vestizione, i romiti come un esercito vegetale, tornano nel paese fino a affollare la piazza centrale. La loro moltitudine danzante finirà però per ingoiarci e riportarci nelle tenebre iniziali, dalle quali si uscirà con una nuova alba”. “U rumita” (il Romita) di Satriano e' una maschera bellissima, sull’orlo della scomparsa, che rappresenta un uomo completamente vestito di edera, con in mano un bastone con foglie di pungitopo, il costume di un bipede vegetale che un tempo si aggirava per il paese durante l’inverno e che adesso quasi nessuno indossa più. Un antico rito arboreo, la figura del romito, l'uomo albero, trasformatasi nei secoli in una maschera, particolarmente sentita nel carnevale di Satriano di Lucania, ma ormai dimenticata dalle nuove generazioni. La maschera del romito e' qualcosa che appartiene esclusivamente alla tradizione interna della Lucania e va scomparendo.



L'albero dei Briganti, Laurenzana

Quest' albero nel passato rappresentò per alcuni briganti di Laurenzana un comodo nascondiglio. Scavato all'interno del fusto, infatti, esso è capace di contenere almeno quattro persone. Nonostante il suo tronco sia stato parzialmente svuotato per ricavarne l'alloggiamento, l'albero è tuttora vivente.



Castagno secolare di Campo Rotondo

Castagno secolare di Campo Rotondo a Camporeale (presso Marsico), con una circonferenza di 7.50 metri, di proprietà di Carmine Nocera.

Vedi video: Castagno secolare di Campo Rotondo



Alberi della Basilicata: le principali specie sul territorio lucano

Gli alberi, con la loro straordinaria capacità rigenerativa, sono simbolo della vita che ciclicamente si spegne e si riaccende: nascita, morte e rinascita, per innumerevoli volte, di stagione in stagione. Il riconoscere le specie arboree non è così semplice come potrebbe sembrare: ci si basa su classificazioni che richiedono conoscenza scientifica ed osservazione analitica dei particolari botanici come la morfologia dei fiori, delle foglie e della corteccia o la forma della chioma. L’ enorme ricchezza ambientale di cui dispone la Basilicata va sempre più tutelata, preservata e goduta. La regione è caratterizzata, dalla presenza di un patrimonio vegetale particolarmente vario e ricco che merita, senza alcun dubbio, di essere apprezzato e divulgato. L’elenco che seguirà, sotto forma di schedatura, comprende sia le piante “autoctone” (dal greco autos, medesimo e chthon, terra ovvero originario dello stesso paese dove vive) che “alloctone” (dal greco allos, diverso e chthon, terra ovvero non originario ma che, pur riproducendosi spontaneamente in una zona ed affermandosi come pianta adatta all’ambiente, non ha avuto sviluppo in quel dato luogo). Tra le specie autoctone e quelle alloctone si collocano le “naturalizzate”, ovvero le piante che si sono ben adattate all’ambiente in cui sono state introdotte e che, oramai, sono divenute elementi caratterizzanti alcune aree. Si pensi ai cedri, all’ippocastano, alla robinia pseudoacacia, all’ailanto, etc., originarie di altri paesi, ma ad ampia diffusione anche in Basilicata a scopo ornamentale o di difesa del territorio ed integratesi sia nel paesaggio locale che nel contesto regionale. Il criterio discriminatorio utilizzato per l’inclusione o l’esclusione delle singole specie è basato sull’entità della diffusione e sulla rappresentatività che queste hanno sul territorio. Si fa presente, comunque, che questo testo non ha la pretesa di essere un’opera esaustiva dal punto di vista scientifico ma, anzi, vuole rappresentare un’introduzione a carattere puramente divulgativo ed alla portata di tutti coloro che vogliono accostarsi al ricchissimo patrimonio arboreo lucano, per approfondire le proprie conoscenze, anche semplicemente sostando in ville e giardini od in una delle numerose aree attrezzate distribuite nei boschi.


INDICE ALFABETICO DEI NOMI LATINI

Abies alba
Acer campestre
Acer lobelii
Acer monspessulanum
Acer opalus
Acer pseudoplatanus
Aesculus hippocastanum
Ailanthus altissima
Alnus cordata
Alnus glutinosa
Carpinus betulus
Castanea sativa
Cedrus atlantica
Cedrus deodara
Cupressus macrocarpa
Cupressus sempervirens
Eucalyptus globulus
Fagus sylvatica
Fraxinus angustifolia
Fraxinus excelsior
Fraxinus ornus
Juglans regia
Ostrya carpinifolia
Pinus halepensis
Pinus leucodermis
Pinus nigra
Pinus pinea
Pinus silvestris
Platanus orientalis
Populus alba
Populus nigra
Populus tremula
Prunus avium
Pseudotsuga menziesii
Quercus cerris
Quercus frainetto
Quercus ilex
Quercus pubescens
Robinia pseudacacia
Salix alba
Sorbus aria
Sorbus aucuparia
Sorbus torminalis
Taxus baccata
Tilia cordata
Tilia platyphyllos
Ulmus campestris


INDICE ALFABETICO DEI NOMI VOLGARI IN RIFERIMENTO AI NOMI LATINI (tra parentesi la denominazione latina)

Abete bianco (Abies alba)
Acero campestre (Acer campestre)
Acero di montagna (Acer pseudoplatanus)
Acero minore (Acer monspessulanum)
Acero napoletano (Acer lobelii)
Ailanto (Ailanthus altissima)
Carpino bianco (Carpinus betulus)
Carpino nero (Ostrya carpinifolia)
Castagno (Castanea sativa)
Cedro dell’Atlante (Cedrus atlantica)
Cedro deodora (Cedrus deodora)
Cerro (Quercus cerris)
Ciliegio (Prunus avium)
Cipresso (Cupressus sempervirens)
Cipresso di Monterey (Cupressus macrocarpa)
Douglasia (Pseudotsuga menziesii)
Eucalipto comune (Eucalyptus globulus)
Faggio (Fagus sylvatica)
Farnetto (Quercus frainetto)
Frassino maggiore (Fraxinus excelsior)
Frassino meridionale (Fraxinus angustifolia)
Ippocastano (Aesculus hippocastanum)
Leccio (Quercus ilex)
Loppo (Acer opalus)
Noce comune (Juglans regia)
Olmo campestre (Ulmus campestris)
Ontano napoletano (Alnus cordata)
Ontano nero (Alnus glutinosa)
Orniello (Fraxinus ornus)
Pino d’Aleppo (Pinus halepensis)
Pino domestico (Pinus pinea)
Pino loricato (Pinus leucodermis)
Pino nero (Pinus nigra)
Pino silvestre (Pinus silvestris)
Pioppo bianco (Populus alba)
Pioppo nero (Populus nigra)
Pioppo tremolo (Populus tremula)
Platano orientale (Platanus orientalis)
Robinia (Robinia pseudoacacia)
Roverella (Quercus pubescens)
Salice bianco (Salix alba)
Sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia)
Sorbo montano (Sorbus aria)
Sorbo selvatico (Sorbus torminalis)
Tasso (Taxus baccata)
Tiglio comune (Tilia platyphyllos)
Tiglio riccio (Tilia cordata)