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La Lucania

Il brigantaggio in Lucania


Per Brigantaggio postunitario si intende una forma di movimento armato che, già presente sotto forma di banditismo nel sud peninsulare e in Sicilia in età borbonica e murattiana, si sviluppò ulteriormente subito dopo l'annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna (da cui ebbe origine lo stato Italiano) assumendo spesso le connotazioni di una rivolta popolare. Con l'appoggio del governo borbonico in esilio e dello Stato Pontificio, la ribellione fu condotta principalmente da elementi del proletariato rurale ed ex militari borbonici (oltreché da renitenti alla leva, disertori ed evasi dal carcere) che, spinti da diverse problematiche economiche e sociali, si opposero alla politica del nuovo governo italiano. Secondo alcuni storici, fu la prima guerra civile dell'Italia, che infiammò la nazione appena unificata sino al 1870. All'indomani della spedizione dei mille e della conseguente annessione del Regno delle Due Sicilie al nuovo Regno d'Italia, diverse fasce della popolazione meridionale cominciarono ad esprimere il proprio malcontento verso il processo di unificazione. Questo malcontento era generato innanzitutto da un improvviso peggioramento delle condizioni economiche dei braccianti della provincia meridionale, che, abituati ad una condizione economica povera ma sopportabile (caratterizzata da un costo della vita moderato, da una bassa pressione fiscale e dalla libera vendita dei prodotti agricoli) si ritrovarono a dover fronteggiare un nuovo regime fiscale per loro insostenibile e una regolamentazione del mercato agricolo svantaggiosa per loro sotto ogni aspetto. Un altro importante motivo che spinse alla rivolta i contadini fu la privatizzazione delle terre demaniali a vantaggio dei vecchi e nuovi proprietari terrieri, che così ampliarono legalmente i loro possedimenti in cambio di un maggior controllo del territorio e della fedeltà al nuovo governo. Tutto ciò danneggiava i braccianti agricoli più umili, cioè quelli che lavoravano a giornata con lavoro precario e senza un rapporto di radicamento nel territorio, che con la sottrazione delle terre demaniali da loro utilizzate si ritrovarono a dover vivere in condizioni economiche ancora più disagiate e precarie rispetto al passato. A tutto ciò si aggiunse l'entrata in vigore della leva obbligatoria di massa, che in periodo borbonico avveniva invece tramite sorteggio e interessava solo pochi uomini, essendo l'organico dell'esercito borbonico, diversamente da quello piemontese, in parte costituito da truppe straniere. In tale contesto si cominciarono a formare, oltre alle bande di contadini e pastori che si davano al brigantaggio come estrema forma di protesta, anche gruppi organizzati di ex soldati del disciolto esercito napoletano, rimasti fedeli alla dinastia borbonica. Tra questi si inserirono anche malviventi e latitanti di vecchia data, adusi a vivere alla macchia. Inoltre, in taluni posti, erano avvenuti da parte dell'esercito di Vittorio Emanuele eccidi e devastazioni (come il massacro di Pontelandolfo il 14 agosto 1861) a causa dei quali i sabaudi non si erano fatti certo amare. Da ultimo, ma non per importanza, l'annessione al Regno d'Italia era sentita dalla parte della popolazione con sentimenti religiosi come una minaccia alla propria fede cattolica e alle proprie tradizioni. La componente religiosa ebbe un'importanza determinante sia perché durante il Risorgimento crebbe una forte connotazione anticattolica, in particolare a causa della questione romana, ragion per cui non poteva godere di un vasto consenso in tutte le classi della popolazione, soprattutto quella rurale, allora intensamente ancorata al proprio sentimento religioso, anche perché il basso clero, a contatto diretto con queste popolazioni, rafforzava l'idea che i liberali "massoni e senza Dio", volessero abbattere radicalmente la "Santa Madre Chiesa". Inoltre dal vicino Stato pontificio, in cui si erano rifugiati i reali borbonici, arrivarono aiuti e costanti incitamenti (fino al 1867) alla lotta armata senza quartiere contro uno Stato che aveva espropriato i beni dei conventi e minacciava la stessa sopravvivenza del potere temporale del Papa. Già nell'ultima fase della spedizione dei mille i borbonici, asserragliati a nord del Volturno intorno Gaeta, avevano deciso di fare ricorso a formazioni armate irregolari a supporto delle truppe regolari ancora attive tra il Sannio e l'Abruzzo, al fine di coprire il fianco rispetto all'avanzata verso sud dell'esercito sardo, guidato dal generale Enrico Cialdini. Nell'autunno 1860 P. Ulloa, ministro della Polizia borbonico diffuse un documento di istruzioni per la Brigata di Volontari stanziata a Itri, con le seguenti indicazioni: 1) ricostruire il governo di Sua Maestà (D.G.), 2) disarmo delle guardie nazionali e conseguente armamento di chi si unisse alla colonna dei volontari, 3) impadronirsi della casse pubbliche, 4) possibilità di imporre tasse per i bisogni dei volontari, 5) possibilità di esigere il pagamento delle tasse in equivalenti in cereali in mancanza di denaro, 6) arrestare chi si opponesse alla colonna o potesse successivamente recarvi danno, agendo alle sue spalle, 7) arrestare ugualmente chi potrebbe agitare lo spirito pubblico contro la monarchia, 8) tenere stretti collegamenti con i propugnatori della causa regia, 9) mantenere l'ordine e il rispetto della religione e dei suoi ministri, 10) proclamare l'antica fedeltà degli abitanti verso Sua Maestà e l'avversione contro gli invasori del Regno. Conseguentemente a queste istruzioni si mosse una colonna agli ordini del prussiano Klitsche De La Grange diretta verso l'Abruzzo e la fortezza di Civitella del Tronto con l'obiettivo di provocare una serie di focolari di ribellione in grado di tagliare i collegamenti fra le truppe di Garibaldi a sud e quelle piemontesi a nord. La colonna non era costituita da truppe di linea, impegnate nella difesa dell'area circostante Gaeta e Capua, ma da uomini della milizia urbana e polizia siciliana ritiratasi sul continente. A questa seguirono altre due colonne, guidate dai generali Scotti Douglas e von Meckel, sempre dirette verso gli Abruzzi e il Molise. Questa guerra civile interessò quasi tutte le regioni dell'entroterra del regno borbonico annesso al nuovo regno sabaudo italiano, tuttavia il fenomeno fu del tutto assente in quelle regioni del meridione in cui le condizioni economiche erano decisamente migliori, come ad esempio nelle aree urbane e industrializzate, nelle zone agricole più produttive e nell'amplissima fascia costiera del Mezzogiorno e della Sicilia. Infatti la Relazione parlamentare "Massari" del 1863 testualmente riporta: "...Nella provincia di Reggio Calabria difatti, dove la condizione del contadino è migliore, non vi sono briganti." Una delle zone più strategiche delle forze dei briganti divenne per l'appunto il Vulture e il suo capo più rappresentativo fu Carmine Donatelli Crocco di Rionero in Vulture.



« I militari solitamente così avari di immagini, rivelano un'improvvisa prodigalità fotografica durante la repressione del brigantaggio, negli anni successivi all'incontro di Teano. Ecco che d'un tratto l'impassibilità distante e oggettuale, la veduta silente, sono messe da parte, e i cadaveri prima nascosti vengono ostentati. Ufficiali e soldati collaborano a mettere in posa i fucilati davanti all'obiettivo, organizzano messe in scena in cui gli ancora vivi recitano la parte del brigante. Una folla di contadini meridionali e centrali si affaccia in questo modo macabro alla storia della nazione. » (Giulio Bollati, L'Italiano, Einaudi, Torino, 1983, pp. 142-143.)

Le pubbliche esecuzioni e l'esibizione esemplare dei giustiziati (pratica piuttosto diffusa nel XIX secolo) furono largamente impiegate come monito e come strumento propagandistico al fine di rendere popolare la guerra condotta dal Regio Esercito per reprimere le rivolte nel meridione. Il brigantaggio si contrappose prima alle milizie civiche, armate dai notabili e dai possidenti meridionali, che più ebbero a soffrire della stagione di violenze e poi all'esercito italiano, generalmente indicato come 'piemontese'. Due tra i più famosi comandanti militari della repressione sabauda furono Cialdini, modenese, ed Emilio Pallavicini, genovese. L'azione delle bande, diffusa un po' in tutto il territorio continentale appartenuto all'ex-Regno delle Due Sicilie, è stata definita, a seconda del punto di vista: brigantaggio secondo la storiografia prevalente, rivolta come resistenza all'annessione al Regno sabaudo secondo la storiografia revisionista meridionalista. All'estremo sud continua a resistere, e lo farà sino alla primavera del 1861, la cittadella di Messina (che, già nel luglio 1860 aveva smesso di combattere, pattuendo di liberare la città e di non ostacolare Garibaldi nel passare lo stretto) e solo il 20 marzo 1861, tre giorni dopo la proclamazione dell'Unità d'Italia, si arrese la guarnigione della cittadella di Civitella del Tronto, al confine tra Abruzzo e Marche. A seguito della partenza dei Borbone di Napoli, dopo la sconfitta subita nella battaglia del Volturno e dell'assedio di Gaeta, il partito legittimista prese ad organizzarsi per tentare di cacciare l'invasore (supportati dai Borbone di Napoli, esuli a Roma, un poco dai Borbone di Spagna, dalla nobiltà legittimista e da una parte del clero). Nelle formazioni irregolari, che la popolazione locale denominava masse, affluirono migliaia di uomini: ex soldati dell'esercito sconfitto e disciolto, coscritti che rifiutavano di servire sotto la bandiera italiana, popolazione rurale, banditi di professione e briganti stagionali, che si dedicavano già alle grassazioni nei periodi nei quali non potevano trovare impiego in agricoltura. Si registravano sollevazioni diffuse, seguite dal rovesciamento dei comitati insurrezionali, sostituiti con municipalità legittimiste. A Napoli, l'ex-capitale travagliata da una grave crisi economica, agiva la propaganda del comitato borbonico della città, che riuscì, perfino, a organizzare una manifestazione pubblica a favore della deposta dinastia. Nel mese di aprile venne sventata una cospirazione anti-unitaria e arrestate oltre seicento persone, fra cui 466 ufficiali e soldati del disciolto esercito borbonico. Nella primavera del 1861 la rivolta divampava ormai in tutto il Mezzogiorno continentale, assumendo spesso le forme di estese jacquerie contadine e, come tali, votate alla sconfitta nel loro impari confrontarsi con un moderno esercito calato in forze a combatterle. Si materializzava, tuttavia, il rischio concreto di un collegamento di tutte le formazioni della rivolta, dalla Calabria alle province contigue allo Stato Pontificio, dove risiedeva il re deposto, Francesco II, con un'azione centrata fra Irpinia e Lucania, ciò che condusse ad un incremento notevole sia delle forze impegnate, sia della ferocia con la quale la repressione delle insorgenze fu attuata. Nel luglio 1861 venne inviato a Napoli il generale Enrico Cialdini, con poteri eccezionali per affrontare l'emergenza del brigantaggio. Egli seppe rafforzare il partito sabaudo, arruolando militi del disciolto esercito meridionale di Garibaldi e perseguendo il clero e i nobili legittimisti. In una seconda fase, comandò una dura repressione messa in atto attraverso un sistematico ricorso ad arresti in massa, esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e masserie, vaste azioni contro interi centri abitati: fucilazioni sommarie e incendi di villaggi erano frequenti, restano presenti nella memoria storica gli eccidi dei paesi Casalduni e Pontelandolfo nell'agosto 1861, messi a ferro e fuoco dai bersaglieri, per rappresaglia dopo il massacro di oltre 40 militari regolari perpetrato da briganti con l'appoggio di elementi attivi della popolazione locale. L'obiettivo strategico consisteva nel ristabilire le vie di comunicazioni e conservare il controllo dei centri abitati. Le forze a sua disposizione consistevano in circa ventiduemila uomini, presto passate a cinquantamila unità nel dicembre del 1861. I suoi metodi repressivi impressionarono perfino il governo di Torino e scandalizzarono la stampa estera, per cui Cialdini venne sospeso nel settembre di quello stesso anno e sostituito dal generale Alfonso La Marmora. Gli strumenti a disposizione della repressione venivano, nel frattempo, incrementati, con la moltiplicazione delle taglie e l'istituto delle deportazioni: questa era la forma di quei tempi del domicilio coatto. Il 15 agosto 1863 venne emanata la legge Pica, che prese il nome dal redattore della legge l'abruzzese Giuseppe Pica, una legge speciale adottata in deroga agli articoli 24 e 71 dello Statuto albertino, articoli che garantivano, rispettivamente, il principio di uguaglianza di tutti i sudditi dinanzi alla legge e la garanzia del giudice naturale connessa al divieto di costituire tribunali speciali. Tale legge colpiva non solo i presunti e veri briganti, ma affidava al giudizio dei tribunali militari anche i loro parenti e congiunti o semplici sospetti di collaborazione coi briganti. A cavallo degli anni 1862-66 le truppe dedicate alla repressione vennero aumentate sino a 105.000 soldati, circa i due quinti delle forze armate italiane del tempo. Il generale Emilio Pallavicini, che alla dura repressione preferiva favorire il "pentitismo" tra i briganti, giunse ad eliminare le grandi bande a cavallo con i loro migliori comandanti: il 5 gennaio 1863 venne ucciso in combattimento Pasquale Romano, attivo nella zona di Bari, e nativo di Gioia del Colle, era un ex tenente dell'esercito borbonico considerato un abile stratega: la sua morte in battaglia rappresentò la fine della guerriglia organizzata militarmente in Puglia, nel corso dell'anno furono sgominate le bande di Crocco, soprattutto dopo dopo la resa di Giuseppe Caruso avvenuta il 14 settembre 1863 e la sua collaborazione con le autorità italiane, nella zona di Foggia Michele Caruso fu fucilato il 23 dicembre dello stesso anno, e Carmine Crocco, incalzato senza tregua dalla truppe italiane, venne arrestato dalle guardie pontificie il 25 agosto 1864, dopo essere riparato nel Lazio ove sperava di ricevere aiuti.


La Basilicata fu tra le regioni con il più alto tasso di brigantaggio e in cui vi furono le bande più grandi e agguerrite. Nel 1860, a seguito dello sbarco di Garibaldi in Sicilia, i signori lucani fino a quel momento fedeli alla corona borbonica aderirono ai moti liberali, poiché il programma unitario avrebbe permesso loro di mantenere i privilegi e di rimanere classe dirigente. Anche il popolo lucano, che versava in una condizione di miseria, vide nella spedizione garibaldina una speranza di migliorare il proprio stile di vita e solidarizzò con i moti unitari poiché il comitato insurrezionale lucano, presieduto da personalità come Giacinto Albini (l’unico liberale più convinto e coerente secondo Tommaso Pedio), Nicola Mignogna e Pietro Lacava, promise loro l'abolizione del latifondismo e una redistribuzione delle terre. Compiuta l'unità, l'illusione del popolo venne tradita. Il comitato prodittatoriale lucano non mantenne le promesse e le terre rimasero di proprietà del ceto borghese, i cui interessi non furono intaccati. In aggiunta, il popolo vide un aumento delle tasse e l'introduzione del servizio militare obbligatorio (che precedentemente era riscattabile sotto il Regno delle Due Sicilie) e molti renitenti alla leva vennero fucilati sul posto e senza neanche aver la possibilità di giustificarsi, episodi del genere accaddero, ad esempio, a Castelsaraceno, Carbone e Latronico. Essendo l'unico strato sociale a non aver guadagnato nulla con il nuovo regime, il popolo iniziò ad imbracciare le armi e si formarono bande di briganti in tutta la regione. Il governo borbonico in esilio colse l'occasione di provare a riprendersi il regno perduto, accattivandosi le simpatie dei briganti promettendo loro privilegi a cui furono sempre negati. Al popolo lucano non importava chi comandasse, il loro unico bisogno era la speranza di una vita migliore. L'alveo delle forze dei briganti divenne l'area del Vulture ed il suo capo più rappresentativo fu Carmine "Donatello" Crocco di Rionero in Vulture, già bandito sotto il vecchio regime e che si arruolò tra i garibaldini nella speranza che il nuovo governo avesse redento il suo passato ma, non ottenendo l'amnistia, fu incarcerato e in seguito evase, unendosi alla reazione legittimista organizzata dai notabili filoborbonici. Nel suo esercito (che raggiunse le 2.000 unità), vi erano altri noti e temibili briganti come Giuseppe Nicola Summa (noto come Ninco Nanco), Giuseppe "Zi' Beppe" Caruso, Giovanni "Coppa" Fortunato, "Caporal" Teodoro Gioseffi. L'esule governo napoletano mandò, in aggiunta, alcuni agenti legittimisti, come il generale spagnolo José Borjes e il francese Augustin De Langlais, per organizzare e disciplinare le bande. Crocco e i suoi uomini misero a ferro e fuoco la zona del Vulture, ma anche l'Irpinia e la Capitanata, il loro principale bersaglio erano gli esponenti liberali, che si disinteressarono dei problemi del volgo, e i grandi proprietari terrieri che mantennero la loro posizione predominante nei loro possedimenti con l'unità nazionale. I notabili venivano brutalmente massacrati dai briganti e, se lasciati in vita, erano costretti a rifornire le bande per evitare una morte sicura. Sotto la furia dei briganti potevano incappare anche civili, ma nella maggior parte dei casi, Crocco e la sua armata vennero acclamati dal popolo e furono da esso sostenuto. L'insurrezione brigantesca fu soffocata nel sangue. Gli ufficiali del regio esercito italiano ordinarono esecuzioni sommarie, a cui parteciparono anche uomini della legione ungherese. A Trivigno, una pattuglia dell'esercito italiano fece un rastrellamento, fucilò alcuni prigionieri ed emanò un bando che prevedeva il perdono a chi si fosse costituito alle autorità. 28 ricercati si presentarono e, nonostante la promessa, furono fucilati senza processo. A Ruvo del Monte, dopo l'assedio di Crocco in cui vennero uccise 17 persone tra possidenti e liberali, un reparto di 1500 soldati, tra bersaglieri e guardie Nazionali provenienti da Rionero, comandati dal maggiore Guardi, ordina la perlustrazione e la fucilazione di un numero imprecisato di ruvesi. Dopo lo sterminio, Guardi ordinò ai notabili del posto di provvedere ai bisogni della truppa e, davanti al loro rifiuto, comandò il loro arresto con l'accusa di attentato allo Stato e manutengolismo. A Lavello, 20 briganti furono fucilati da un contigente di ussari. Altri eccidi si registrarono a Venosa e Barile.Con la promulgazione della legge Pica, in meno di sei mesi, in Basilicata furono incarcerate per complicità o sospetto di aderenza ai briganti 2.400 persone, di cui la metà "mandata innanzi a giudici militari o civili"; di questi, 525 persone, tra cui 140 donne, finirono al confino. Anche nella provincia di Matera il fenomeno fu di non minore eclatanza ed ebbe come episodio precursore l'uccisione di un latifondista, il Conte Gattini, avvenuta l'8 agosto 1860 a Matera. I contadini materani infatti si sollevarono contro i proprietari terrieri a causa delle lentezze nella ripartizione delle terre demaniali ai privati, ed alla vigilia dell'Unità cominciarono a essere aizzati da quella parte della nobiltà, reazionaria e legittimista, che mal sopportava la venuta del nuovo regime e che incalzata dalla storia andava promettendo redistribuzioni di terre in caso di vittoria. Tra le varie bande esistenti nel materano le più importanti erano quella di Rocco Chirichigno, detto Coppolone, di Montescaglioso, quella di Vincenzo Mastronardi, detto Staccone, di Ferrandina, quella di Eustachio Fasano ed Eustachio Chita detto Chitaridd a Matera. Quest'ultimo viene considerato l'ultimo brigante in quanto anche dopo la sconfitta del brigantaggio post-unitario continuò a operare in maniera isolata fino alla sua uccisione avvenuta nel 1896.

Briganti famosi attivi in Lucania

« Il brigante è come la serpe, se non la stuzzichi non ti morde. » (Carmine Crocco)

Carmine Crocco, detto Donatello (Rionero in Vulture, 5 giugno 1830 – Portoferraio, 18 giugno1905), è stato un brigante lucano, tra i più noti e rappresentativi del periodo risorgimentale. Era il capo indiscusso delle bande del Vulture-Melfese, sebbene il suo controllo si estese fino al Molise, alle zone dell’Irpinia (Avellino), a Capitanata (Foggia), alla Terra di Bari e Lecce. Nel giro di pochi anni, da umile bracciante divenne comandante di un esercito di duemila uomini, e la consistenza della sua armata fece della Lucania il cuore della rivolta antisabauda. Guidato più dall’istinto che da veri e propri ideali, egli combatté prima nelle file di Giuseppe Garibaldi, poi con la resistenza borbonica e infine per sé stesso, distinguendosi da altri briganti del periodo per chiara e ordinata tattica bellica e imprevedibili azioni di guerriglia, qualità che vennero esaltate dagli stessi militari sabaudi che gli diedero la caccia. In circa quattro anni di latitanza dall’unità d’Italia, Crocco fu uno dei più temuti e ricercati fuorilegge del periodo post-unitario, guadagnandosi appellativi come “Generale dei Briganti”, ”Generalissimo”, ”Napoleone dei Briganti”, e su di lui pendeva una taglia di 20.000 lire. Tuttora al centro di pareri discordanti, è considerato un bandito e carnefice per alcuni e un eroe popolare per altri, soprattutto per i sostenitori della tesi revisionista del Risorgimento. * * * * * Crocco, nel periodo di Pasqua del 1861, conquistò la zona del Vulture nel giro di dieci giorni. Il 7 aprile occupò Lagopesole (rendendo il castello una roccaforte) e il giorno successivo Ripacandida, dove sconfisse la guarnigione locale della Guardia Nazionale Italiana. Crocco dichiarò subito decaduta l’autorità sabauda e ordinò che fossero esposti nuovamente gli stemmi e i fregi di Francesco II. Il 10 aprile i briganti entrarono a Venosa e la saccheggiarono, istituendo anche qui una giunta provvisoria. Durante l’occupazione di Venosa, morì, per mano dei briganti, Francesco Nitti, nonno dello statista Francesco Saverio. Fu poi la volta di Lavello ed infine di Melfi (15 aprile), dove Crocco fu accolto trionfalmente (anche se alcuni ricordano mestamente l’entrata dei suoi uomini nella città melfitana per via della macabra uccisione e mutilazione del parroco Pasquale Ruggiero). Con l’arrivo di rinforzi piemontesi da Potenza, Bari e Foggia, Carmine fu costretto ad abbandonare Melfi e, con i suoi fedeli, si spostò verso l’avellinese, occupando, qualche giorno dopo, Aquilonia (a quel tempo chiamata “Carbonara”), Calitri, Sant’Andrea di Conza e Sant’Angelo dei Lombardi. L’arrivo di Carmine in Irpinia diede uno scossone a diverse popolazioni locali: comuni come Trevico e Vallata insorsero contro i piemontesi e sotto la sua influenza si formarono altre bande nella zona comandate da un suo nuovo luogotenente, il brigante Ciriaco Cerrone. L’espansione di Carmine riuscì anche a valicare i confini pugliesi, grazie anche all’appoggio del suo subalterno Giuseppe “Sparviero” Schiavone di Sant’Agata di Puglia, occupando la stessa Sant’Agata, Bovino e Terra di Bari. Nel frattempo, Crocco venne a sapere che Decio Lordi, colui che sembrava sostenerlo e che gli consigliò di arruolarsi nei garibaldini per evitare il carcere, lo aveva tradito, fornendo ai piemontesi alcuni indizi per catturarlo. Il brigante decise così di punirlo, ordinando ad alcuni suoi uomini di preparargli un’imboscata. Mentre stava lasciando Melfi per prendere la sottoprefettura di Eboli, il signorotto e le sue guardie vennero sorpresi da alcuni briganti che, dopo una breve colluttazione, li costrinsero ad arrendersi. Lordi riuscì a farla franca, scappando con due gendarmi. Carmine rimase amareggiato e non credette più ai galantuomini che finora sembravano appoggiarlo. Nell’ agosto 1861 programmò di sciogliere le proprie bande. Il barone piemontese Giulio De Rolland, nominato nuovo governatore della Basilicata al posto del dimissionario Giacomo Racioppi, era disposto a trattare con lui ma il neonato governo non era d’accordo. Crocco tornò sui suoi passi quando il governo borbonico in esilio gli promise rinforzi. Il 22 ottobre 1861, arrivò per ordine del generale borbonico Tommaso Clary, il generale catalano Josep Borges. Borges, da poco giunto dalla Calabria, venne a conoscenza, tramite Clary, delle vittoriose gesta di Crocco e organizzò un incontro con lui nel bosco di Lagopesole. Il generale aveva fiducia nelle capacità del brigante rionerese e vide in lui un valido aiuto per tentare un’insurrezione contro i piemontesi. Borges voleva trasformare la sua banda in un esercito regolare, quindi adottando disciplina e precise tattiche militari; inoltre programmò di assoggettare i centri minori, dar loro nuovi ordinamenti di governo e arruolare nuove reclute per poter conquistare Potenza, ancora un solido presidio sabaudo. Carmine gli diede retta, sebbene non nutrisse alcuna simpatia per il generale sin dall’inizio, temendo che Borges volesse sottrargli il comando dei propri territori (il brigante lo definì un “povero illuso”). Nel frattempo giunse da Potenza un nuovo rinforzo, il francese Augustin Marie Olivier De Langlais, che si presentò come agente legittimista al servizio dei Borboni. De Langlais, personaggio ambiguo di cui Borges ebbe a dire nel suo diario «si spaccia come generale e agisce come un imbecille», parteciperà a numerose scorrerie accanto al brigante. * * * * * Partito da Lagopesole, assieme alle sue bande e con l’appoggio bellico di Borjes di circa 500 uomini, Crocco raggiunse le sponde del Basento, ove riuscì a reclutare nuovi combattenti, e occupò Trivigno, mettendo subito in fuga le guardie nazionali. La popolazione venne soggiogata e costretta ad obbedire ai suoi ordini. Spostandosi nella provincia di Matera, il 5 novembre, conquistò il piccolo centro di Calciano sulla destra del Basento e poi a Garaguso. Durante il tragitto verso Garaguso, Carmine incontrò un parroco, che implorò pietà. A parte qualche evento facinoroso, il paese venne occupato senza particolari disordini. Il mattino seguente fu la volta di Salandra, ben protetta dalle guardie nazionali, ma furono gli uomini di Crocco ad avere la meglio, grazie anche all’appoggio del popolo, ostile al nuovo governo piemontese. Si proseguì per Craco, ove non avvennero eventi sanguinari a seguito della clemenza richiesta dalla popolazione, e per Aliano, facilmente conquistabile essendo abbandonata alla sola popolazione, che accolse calorosamente i briganti. Per fronteggiare l’inarrestabile marcia di Crocco, il sottoprefetto di Matera preparò un esercito di 1200 uomini, composto da un battaglione di fanteria, bersaglieri e guardie nazionali. Questa volta la battaglia, combattuta nei pressi di Stigliano, fu più ardua del previsto per i briganti e molti di loro perirono, ma anche questa volta i combattenti di Crocco ne uscirono vincitori, grazie anche al contributo del suo “braccio destro” Ninco Nanco che, con soli 100 uomini, adottò una strategia determinante nel mettere in fuga la coalizione avversaria, il cui capitano fu ucciso e decapitato. Conquistati altri paesi come Grassano, Guardia Perticara, San Chirico Raparo e Vaglio, l’esercito di Crocco giunse nelle vicinanze di Potenza il 16 novembre ma fu subito costretto alla fuga verso Pietragalla a causa di un ex borbone, passato alla parte dei sabaudi, che avvertì quest’ultimi dell’arrivo dei briganti e fornì loro armi in cambio di denaro. Il 22 novembre, i briganti giunsero a Bella e conquistarono Ruvo del Monte, Balvano, Ricigliano e Pescopagano. Con l’arrivo dell’ennesimo rinforzo militare piemontese, Crocco non fu più in grado di sostenere altre battaglie e ordinò ai suoi uomini la ritirata verso i boschi di Monticchio. Appena tornato, Crocco ruppe i rapporti con il generale Borges, perché era insicuro di vincere e temeva di diventare suo subalterno. Il generale catalano, non sopportando il suo cambio di rotta, si recò a Roma con i suoi 24 uomini per fare rapporto al re ma, catturato dai soldati sabaudi durante il tragitto, venne fucilato assieme ai suoi fedeli a Tagliacozzo. * * * * *


Il tradimento di Caruso


Da quel momento, il brigante rionerese, rimasto senza un sostegno militare ed economico, minacciò ricchi signori di morte e di bruciare le loro proprietà se non l’avessero supportato a livello finanziario, arrivando a compiere depredazioni e ricatti fino alle zone di Foggia, Bari, Lecce, Ginosa e Castellaneta. Si ritrovò a collaborare in diverse occasioni con il brigante pugliese Sergente Romano. Nel febbraio 1862, i due briganti giunsero con i loro uomini nei dintorni di Andria e Corato, uccidendo dei militi della Guardia Nazionale e depredando alcune masserie. Nell’ agosto 1862, il delegato di Pubblica Sicurezza di Rionero, Vespasiano De Luca, volle aprire una trattativa di resa con Crocco e Caruso. De Luca promise ai briganti di evitare la condanna a morte se giudicati da un tribunale civile, mentre per Crocco si prospettava il confino in un’isola stabilita dal governo sabaudo. L’esito dell’accordo si rivelò negativo. Nel marzo 1863 le sue bande (tra cui quelle di Ninco Nanco, Caruso, Caporal Teodoro, Sacchetiello e Malacarne), attaccarono un gruppo di cavalleggeri di Saluzzo, guidato dal capitano Bianchi, e 15 di loro furono picchiati ed uccisi. Caruso, fino a quel momento una delle sue migliori sentinelle, entrò in attrito con il suo capo, per motivi non ancora chiari. Si sostiene che l’astio tra i due ebbe inizio quando Caruso fece sterminare dalla sua banda alcuni soldati piemontesi catturati, contro il volere di Crocco, che reagì a sua volta con violenza e fece ammazzare gli uomini del brigante di Atella. Un’altra ipotesi ritiene che i loro rapporti si incrinarono perché Crocco gli aveva rubato l’amante, la brigantessa Filomena Pennacchio. Caruso si arrese al generale Fontana il 14 settembre 1863 a Rionero, preparando la sua ritorsione nei confronti di Crocco e dei suoi ex alleati. Affidato al generale Emilio Pallavicini (noto anche per aver bloccato Garibaldi sull’Aspromonte mentre tentava di raggiungere lo Stato Pontificio), svelò alle autorità i piani e i nascondigli della sua organizzazione e, per via delle sue informazioni, numerosi briganti trovarono la morte e il loro esercito si indebolì progressivamente. * * * * * Con il rinnegamento di Caruso, l’esercito di Crocco fu costretto a ritirarsi verso l’Ofanto a causa dei massicci rinforzi alla Guardia Nazionale inviati dal governo regio. Nei giorni successivi tutti i paesi insorti e occupati furono riconquistati, ristabilendo l’autorità sabauda. Crocco e la sua banda vissero nei boschi sperando in un provvedimento di clemenza. La sua egemonia era ormai svanita e del suo vasto esercito rimase solo una manciata di uomini. L’esercito di Pallavicini lo sorprese sull’Ofanto, ove le sue truppe vennero decimate il 25 luglio 1864. Davanti ad una sconfitta ormai inevitabile, Carmine, auspicandosi un aiuto da parte del clero, si recò nello Stato Pontificio per incontrare il papa Pio IX, che aveva sostenuto la causa legittimista. In realtà, il brigante fu catturato dai soldati del papa a Veroli, per poi essere incarcerato a Roma. Tutto questo suscitò in lui un’amara delusione nei confronti del pontefice. Oltre all’arresto, gli venne confiscata una cospicua somma di denaro che aveva portato con sé nello stato Papale. Con l’arresto di Crocco, molti uomini sotto il suo comando come Caporal Teodoro, Donato “Tortora” Fortuna, Vincenzo “Totaro” Di Gianni e Michele “Il Guercio” Volonnino furono giustiziati o costretti ad arrendersi, decretando la fine del brigantaggio nel Vulture-Melfese. Carmine fu trasferito in galera a Marsiglia, poi spostato a Paliano, a Caserta, a Avellino per poi finire a Potenza. La sua fama era tale che, durante i suoi passaggi da una prigione all’altra, numerose persone accorrevano per poterlo vedere di persona. Durante il processo tenuto presso la Corte d’Assise di Potenza, il Procuratore Generale Camillo Borelli accusò Crocco dei seguenti reati: 62 omicidi consumati, 13 tentati omicidi, 1.200.000 lire di danni bellici e altri crimini come grassazioni ed estorsioni. Il brigante venne condannato a morte l’11 settembre 1872 ma la pena fu poi commutata nei lavori forzati a vita. Venne prima assegnato al bagno penale di Santo Stefano, ove iniziò a scrivere le sue memorie il 27 marzo 1889 e poi nel carcere di Portoferraio, in provincia di Livorno, ove passò il resto della sua vita fino al 18 giugno 1905, data della sua morte.


”Molti si illusero di poterci usare per le rivoluzioni. Le loro rivoluzioni. Ma libertà non è cambiare padrone. Non è parola vana ed astratta. È dire senza timore, È MIO, e sentire forte il possesso di qualcosa, a cominciare dall’anima. È vivere di ciò che si ama. Vento forte ed impetuoso, in ogni generazione rinasce. Così è stato, e così sempre sarà” (Crocco)






Ninco Nanco


Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco (Avigliano, 12 aprile 1833 – Avigliano, 13 marzo1864), è stato un brigante lucano. Uno dei più devoti luogotenenti di Carmine Crocco, fu protagonista di numerose rappresaglie ai danni dell’esercito sabaudo. Era conosciuto per le sue grandi doti di stratega in battaglia e, soprattutto, per la sua freddezza e la sua brutalità, attributi che lo resero uno dei briganti più temuti di quel tempo. Il 7 gennaio 1861, incontrò Carmine Crocco, con il quale stipulerà un rapporto di stretta collaborazione, divenendone uno dei più fidati subalterni. Il brigante aviglianese, assieme a Crocco, partecipò a numerosi saccheggi, conquistando prima tutto il Vulture e le città di Melfi, Rionero, Ruvo del Monte, senza mai riuscire a prendere la sua città natia, Avigliano, poi gran parte della Basilicata e spingendosi fino all’avellinese e il foggiano. Ninco Nanco era conosciuto, a quel tempo, per la sua impassibilità nel compiere atti ferini. La sua compagna, Maria ‘a Pastora, brigantessa di Pisticci, era sempre accanto a lui durante gli assalti e le imboscate. Quando Ninco Nanco strappava il cuore dal petto dei bersaglieri suoi prigionieri, Maria gli porgeva sempre il coltello. Nel gennaio 1863, Ninco Nanco uccise brutalmente il capitano Capoduro, un vecchio contadino, quattro soldati e un delegato della Pubblica Sicurezza di Avigliano. Nel marzo 1863 a San Nicola di Melfi, si rese protagonista di un feroce massacro ai danni di un gruppo di cavalleggeri di Saluzzo, guidato dal capitano Bianchi, ove 15 di loro furono seviziati e ammazzati. Alla carneficina parteciparono anche le bande di Crocco, Caruso, Coppa e Caporal Teodoro, Marciano, Sacchetiello e Malacarne. Dopo essere stati sorpresi nel bosco di Rapolla dalle truppe sabaude che fucilarono e bruciarono 200 briganti, Ninco Nanco, Caporal Teodoro e Tortora prepararono una violenta ritorsione. Catturarono e massacrarono dei soldati in arrivo da Venosa per una perlustrazione ed il loro tenente venne decapitato. * * * * * L’attività brigantesca di Ninco Nanco iniziò a perdere colpi l’8 febbraio 1864, quando la sua banda fu decimata presso Avigliano e 17 dei suoi uomini furono uccisi. Circa un mese dopo, il 13 marzo, il brigante e 3 dei suoi fedeli furono catturati nei pressi di Lagopesole dalla Guardia Nazionale di Avigliano. Vennero giustiziati subito presso Frusci (frazione di Avigliano) e Ninco Nanco morì per mano del caporale della G.N., Nicola Coviello, con due colpi di cui uno dritto nella gola, per vendicarsi dell’assassinio del cognato compiuto dal brigante aviglianese il 27 giugno 1863. Tuttavia, altre ipotesi ritengono che il brigante venne ucciso per ordine del comandante della G.N. aviglianese, Don Benedetto Corbo, appartenente ad una delle maggiori famiglie gentilizie della zona, per evitare che venissero alla luce sue presunte connivenze controrivoluzionarie. Due mesi dopo, lo stesso Corbo fu coinvolto in un’altra vicenda di complicità con i briganti e venne accusato dal generale Baligno, comandante delle truppe di Basilicata, di aver rilasciato senza permesso alcuni briganti appartenenti alla banda Ninco Nanco. La salma del brigante fu portata il giorno dopo a Avigliano e fu appesa all’Arco della Piazza come monito. Dopo la morte del brigante, i suoi uomini confluirono nella banda di Ingiongiolo di Oppido Lucano.




Giuseppe Schiavone

Giuseppe Schiavone Di Gennaro, soprannominato Sparviero (Sant’Agata di Puglia, 19 dicembre 1838 – Melfi, 28 novembre 1864), è stato un brigante delle Due Sicilie, che agì, con la sua banda soprattutto nelle zone della Capitanata, alle dipendenze di Carmine Crocco. Sebbene un fuorilegge, Schiavone, considerato una persona mite e meno spietata di altri briganti, fu per alcuni il più umano tra quelli di cui fece parte. Giuseppe nacque da Gennaro e Carmina Longo ed ebbe due fratelli (Domenico e Antonio). Le sue condizioni familiari erano normali, vivendo del proprio lavoro e dei frutti della campagna. Iniziò a prestare il servizio militare nel 1860 e, dopo lo scioglimento dell’Esercito delle Due Sicilie nelfebbraio 1861 con la capitolazione di Gaeta, rientrò a Sant’Agata con permesso provvisorio, con il grado di sergente. Richiamato al servizio militare dal governo sabaudo, Schiavone si rifiutò di servire Vittorio Emanuele II e perciò fu costretto a scappare fuori dalla sua cittadina, e rintanarsi nei pressi del torrente Calaggio. Durante il suo rifugio, incontrò la banda di Carmine Crocco di Rionero in Vulture, che si trovò di passaggio dopo una breve sosta nel bosco di Rocchetta Sant’Antonio e decise di unirsi ad essa. La sua scelta fu accolta con molto sconforto da parte dei genitori, tanto che lo invitarono ripetutamente a rinunciare e collaborarono con la giustizia (per questo la sua famiglia fu premiata dal Governo, dando al fratello Domenico un posto di guardia municipale a Sant’Agata). Dopo la morte della madre, Schiavone mandò un’apprezzabile somma di denaro a suo padre, affidandola ad un compaesano. Questi, approfittando del fatto che tra padre e figlio non c’era comunicazione, si impossessò del denaro. Giuseppe, venuto a sapere dell’accaduto, rapì il suo compaesano e per punizione gli tagliò il lobo dell’orecchio destro. Da quel momento dedicò il resto della sua vita al brigantaggio. Schiavone partecipò a numerose spedizioni sotto il comando di Crocco (Irpinia e Vulture) e, con la propria banda, gli fornì una solida base di appoggio in territorio pugliese, permettendogli di conquistare la stessa Sant’Agata, Bovino e Terra di Bari. Al suo fianco c’era spesso la sua consorte Filomena Pennacchio, una brigantessa dal carattere freddo e impassibile, che ebbe anche relazioni con Crocco e Giuseppe Caruso. Schiavone prese parte a diverse scorribande come il massacro di 20 soldati della Guardia Nazionale a Orsara di Puglia, e l’uccisione di 17 soldati piemontesi presso Francavilla sul Sinni. Benché fosse un brigante, Schiavone viene ricordato da certi come uno dei più generosi e dei meno feroci e si dice che, in alcuni casi, si oppose a violenze che i suoi compagni d’armi inflissero ad alcune persone e non partecipò a vari sequestri e uccisioni. Il 26 luglio 1864, a causa del tradimento di Caruso, Schiavone e altri briganti vennero scoperti dai bersaglieri e cavalleggeri sabaudi (guidati dallo stesso rinnegato) nel bosco di Leonessa, vicino Melfi. Giuseppe riuscì a mettersi in salvo e si nascose a Bisaccia, nella casa di alcuni notabili filoborbonici, ma la sua fuga ebbe le ore contate. La sua amante, Rosa Giuliani, lo tradì, dato che Giuseppe la mise da parte per la Pennacchio. La Giuliani svelò alle autorità che nella notte tra il 26 ed il 27 novembre Schiavone con altri quattro briganti si sarebbe recato nella masseria di Posta Vassalli, nella zona di Melfi. Giunti alla masseria, Schiavone e i briganti furono circondati e costretti ad arrendersi. Condotti in carcere a Melfi, furono giudicati da un Tribunale Militare Straordinario e il giorno seguente condannati a morte tramite fucilazione. Prima di morire, Schiavone chiese di poter vedere per l’ultima volta la sua compagna, che attendeva un figlio da lui ed era rifugiata nell’abitazione di una levatrice. Gli fu concesso questo ultimo desiderio e alla vista della sua amata si inginocchiò chiedendole perdono, la strinse fra le sue braccia e le diede il suo ultimo idilliaco bacio. Pochi istanti dopo, il brigante venne fucilato assieme agli altri condannati.



Gioseffi Teodoro, alias Caporal Teodoro

Gioseffi Teodoro, alias Caporal Teodoro, nacque a Barile da una misera famiglia di contadini e guardiano campestre di professione, aderì sin dall’aprile 1861 al brigantaggio nella banda Crocco, e per questo fu ricercato per “cospirazione diretta ad attentare avente per oggetto di cambiare la forma del governo”. Dopo essere stato nella banda Crocco passò in quella di Ninco Nanco e successivamente seguì Borjés, venendo appunto soprannominato Caporal Teodoro, prendendo parte, nell’autunno 1861, al sacco di Trivigno, Vaglio, Bella, Ruvo del Monte, Pescopagano e Pietragalla. Con il ritiro dello spagnolo, Gioseffi, finì per ereditare la banda del suo paesano Botte, agendo su un territorio che comprendeva i comuni di S. Fele, Ruvo del Monte, Rapone e Monticchio. La prima azione autonoma della banda Gioseffi risalì al 15 aprile 1862 e fu una disfatta perché fu costretta alla fuga da un reparto di bersaglieri, lasciando sul terreno quattro morti, la druda di Gioseffi, 29 cavalli, sei vacche e numerosi fucili, munizioni e bisacce. Il 16 giugno assieme alla banda Coppa la banda Gioseffi subì un’altra sconfitta, sempre ad opera dei bersaglieri, nelle vicinanze delle Crocelle, mentre il 12 marzo la banda Gioseffi in compagnia delle bande Coppa, Ninco Nanco, Caruso, Malacarne di Melfi, Marciano e Sacchetiello, guidate da Crocco, partecipò al massacro di 15 cavalleggeri Saluzzo, e successivamente il 26 luglio con le bande Caruso, Tortora, Schiavone al massacro di altri 23 cavalleggeri, presso la Rendina. La banda Gioseffi attuò numerosi reati minori: nel 1862 operò nel solo territorio di Melfi sei grassazioni, mentre nel territorio attiguo di Rapolla attuò una grassazione e una tentata estorsione. Il 15 aprile 1863 la sua banda fu decimata, nei pressi di Monticchio, da un reparto di bersaglieri, costringendo Caporal Teodoro ad unirsi dapprima, fino al maggio 1864, con la banda di Malacarne di Melfi, e successivamente con la banda Volonnino, forte di 17 elementi, per evitare che la sua banda, da sola, potesse essere facilmente catturata o distrutta da un semplice plotone dell’esercito piemontese. Il 26 maggio anche Caporal Teodoro fu tra i carnefici dei sette fanti del 4° reggimento trucidati presso il bosco di Civita. Ormai braccato dalle forze repressive guidate dal “traditore” Caruso, il 3 febbraio 1865 Caporal Teodoro si presentava a Rionero al generale Pallavicini. Sulla sua testa, come su quella di Michele Volonnino e di Totaro, pendeva una taglia di 9.000 lire. A carico di Gioseffi furono addebitati tredici capi di imputazione: associazione di malfattori maggiore di cinque, avente lo scopo di delinquere contro le persone e le proprietà dei comuni di Ripacandida, Melfi, Rapolla; ___ grassazione in danno di Ercole Siniscalchi, proprietario di Melfi, nel 1861; ___ arruolamento in banda armata a Rapolla nel 1861; ___ grassazione in danno di Mecca Antonio di Melfi nel 1862; ___ grassazione in danno di Laviano Michele di Melfi nel 1862; ___ grassazione contro Picchimenna Domenico di Melfi nel 1862; ___ omicidio di Cerone Giuseppe di Melfi nel 1862; ____ tentata estorsione di Mendia Giuseppe a Rapolla nel 1862; ____ grassazione contro Tolve Donato; ____ grassazione contro Pastore Luigi, in agro di Venosa, nel 1862; ____ grassazione contro Fasciano Anselmo e Aromatardo Nicola di Melfi nel 1863; ____ assassinio di Schirò Domenico di Melfi nel 1863; ____ sequestro di persona contro Farano Michele di Melfi nel 1863 ____ Per questi reati fu condannato dal tribunale militare di Guerra di Potenza, con sentenza pronunziata il 16 giugno 1865, ai lavori forzati a vita.




Agostino Sacchitiello

Il brigante è inteso, genericamente, come bandito, persona la cui attività è fuorilegge. Spesso sono stati definiti briganti, in senso dispregiativo, combattenti e rivoltosi in determinate situazioni sociali e politiche: in particolare briganti furono i personaggi che si opposero con le armi all’instaurazione della monarchia sabauda nel Regno delle due Sicilie.




Nicola Napolitano

Nicola Napolitano, detto il Caprariello (Nola, 28 febbraio 1838 – Nola, 10 settembre 1863), è stato un brigante delle Due Sicilie attivo nell’Avellinese. Il suo soprannome deriva dal suo mestiere di pastore di capre. Nato a Nola il 28 febbraio 1838 dai contadini Sabato e Carmela di Napoli, e privo d’istruzione, nel 1861 fu chiamato alla leva militare istituita dal neonato Regno d’Italia e sconosciuta sotto il regime borbonico. Renitente, fu arrestato e arruolato a forza, ma disertò quasi immediatamente, unendosi alla formazione brigantesca guidata dai fratelli nolani La Gala, presso la quale assunse un ruolo preminente, segnalandosi per energia e ferocia, sino al punto, nel corso del 1862, di costituire e guidare una sua propria banda. Arrestato a seguito di un conflitto a fuoco ai primi di settembre del 1863, fu fucilato nella nativa Nola il 10 dello stesso mese.



Giuseppe Caruso, traditore dei briganti Lucani

Giuseppe Caruso, soprannominato Zi’ Beppe (Atella, 18 dicembre 1820 – 1892), è stato tra i più distintivi del brigantaggio lucano. Assieme a Giovanni “Coppa” Fortunato e a Ninco Nanco fu uno dei più spietati luogotenenti di Carmine Crocco (uccise 124 persone in quattro anni di latitanza) ma, dopo essersi consegnato alle autorità sabaude nel 1863, fu anche uno dei responsabili della repressione del brigantaggio nel Vulture. Prima di essere brigante, Caruso era un guardiano campestre dei Saraceno, nobile famiglia di Atella. Nell’aprile 1861, dopo aver sparato ad una guardia nazionale del suo paese, decise di diventare brigante per fuggire alle accuse ed evitare la fucilazione. Si distinse subito per la sua freddezza e le sue doti di capo, riuscendo a costituire una banda operante nella zona ofantina. Carmine Crocco lo arruolò nel suo esercito di briganti ed entrambi furono protagonisti di vari scontri con la guardia nazionale. Caruso, sotto il comando di Crocco, partecipó attivamente alla conquista della Basilicata. Il 6 aprile 1862, la sua banda si scontró nei pressi di Muro Lucano con delle truppe regolari, uccidendo nove fanti. Nell’agosto 1862, i due briganti parteciparono alle trattative di resa con il delegato della Pubblica Sicurezza di Rionero, Vespasiano De Luca. Esse prevedevano una grazia ai briganti e il giudizio da parte di un tribunale civile e non militare, mentre per i capi si prometteva il confino in un’isola scelta del governo. Tuttavia quelle trattative non furono concretizzate. Caruso continuò la sua attività di brigante e, il 6 settembre dello stesso anno assieme al suo capo Crocco ed altri 200 briganti, attaccarono una masseria, derubando dieci tomoli di biada per i cavalli, venti sacchi di grano e dieci panni del valore di venti ducati. Il brigante atellano fu anche uno degli artefici del massacro dei 15 cavalleggeri di Saluzzo e di altri 21 tra Melfi e Lavello.


IL TRADIMENTO


Caruso, a causa di attriti con Crocco in circostanze non chiare, uscì dal suo esercito e, convinto della famiglia Saraceno, si arrese al generale Fontana il 14 settembre 1863 a Rionero. Imprigionato e interrogato nel carcere di Potenza, il brigante tradì i suoi compagni svelando alle autorità le loro strategie e i loro compromessi con alcuni politici locali. Il 5 ottobre 1863, il Tribunale Militare di Potenza lo condannò a sette anni di carcere come aveva chiesto il suo avvocato, una pena ridotta data la sua collaborazione con le istituzioni. Il 1º marzo 1864, ottenuto il permesso dal prefetto di uscire dal carcere, Caruso, assieme a De Vico, capitano dei Carabinieri di Potenza, colsero di sorpresa Crocco ed altri briganti. L’ormai ex brigante uccise due colleghi ed un terzo lo portò al presidio militare di Rionero. Dopo la costituzione delle Zone Militari di Melfi-Lacedonia e Bovino, Caruso fu poi affidato al generale Emilio Pallavicini, con il quale proseguì la sua attività repressiva contro i briganti, grazie alle sue preziose informazioni. Durante la ricerca di Crocco, Caruso, miratore impeccabile, sparò un colpo di carabina, ad una distanza di 200 metri, verso un brigante con le sembianze del suo ex comandante il quale, colpito in pieno volto, cadde al suolo. Avvicinatosi al cadavere, scoprì che si trattava di uno dei suoi uomini che aveva il suo stesso abbigliamento, un trucco per sviare la caccia delle autorità. Il 7 aprile 1864, il direttore delle carceri di Potenza chiedeva la grazia sovrana per Caruso, per aver dato un grande contributo nell’annientamento del brigantaggio nel Vulture. Così, il 7 novembre 1864, il re Vittorio Emanuele II gliela concesse. Per il suo impegno, l’ex brigante ricevette vari privilegi e venne nominato brigadiere delle guardie forestali di Monticchio, all’età di 66 anni. Inoltre gli fu concesso di portare armi da fuoco, per mantenere l’ordine pubblico del suo paese e per difesa personale. Secondo le dichiarazioni di Caruso, Crocco avrebbe tentato di ucciderlo in carcere mandandogli del cibo avvelenato. Caruso morì ad Atella nel 1892, all'età di 72 anni.



Michelina Di Cesare

Michelina Di Cesare (Caspoli, 28 ottobre 1841 – Mignano Monte Lungo, 30 agosto 1868) è stata una brigante italiana, nata nell'allora Regno delle Due Sicilie. Nata poverissima a Caspoli, frazione di Mignano Monte Lungo, nella provincia di Terra di Lavoro, oggi in provincia di Caserta, ebbe un'infanzia disagiata. Insieme al fratello infatti, secondo una nota del sindaco di Mignano, Michelina si rese protagonista sin da piccola di piccoli furti ed abigeati nel circondario di Caspoli. Nel 1861 si sposa con Rocco Tanga, che muore l'anno seguente lasciandola vedova. Nel 1862 conosce Francesco Guerra, ex soldato borbonico e renitente alla leva indetta dal nuovo Stato, il quale si diede alla macchia aggregandosi alla banda di Rafaniello fino a diventarne capo nel 1861 alla morte di costui. Michelina ne divenne la donna e in seguito lo raggiunse in clandestinità, come resta testimonianza in un interrogatorio del brigante Ercolino Rasti nel 1863. Secondo alcuni i due si sposarono nella chiesa di Galluccio anche se non c'è registrazione dello sposalizio, ma vi sono alcune testimonianze nelle carte processuali relative all'interrogatorio dell'11 maggio 1865 a Domenico Compagnone, che parla della donna definendola Michelina Guerra moglie di quest'ultimo. Ciò di cui si hanno maggiori certezze è il ruolo nella banda di Michelina: essa divenne elemento di spicco e fu stretta collaboratrice del suo uomo e capobanda. Di ciò si ha chiara notizia dalla testimonianza dello stesso Domenico Compagnone, che nell'interrogatorio aggiunge: La banda è composta in tutto di 21 individui, comprese le due donne che stanno assieme a Fuoco e Guerra, delle quali quella di Guerra è anch'essa armata di fucili a due colpi e di pistola. Della banda solo i capi sono armati di fucili a due colpi e di pistole, ad eccezione dei due capi suddetti che tengono il revolvers. Dunque non solo Michelina Di Cesare fece parte effettiva della banda, ma dalle armi che portava se ne ricava che fu una dei suoi capi riconosciuti. La tattica di combattimento della banda era tipicamente di guerriglia, con azioni effettuate da piccoli gruppi che, concluso l'attacco, si disperdevano alla spicciolata per riunirsi in seguito in punti prestabiliti. La banda di Michelina, talvolta singolarmente, talvolta in unione ad altre note bande locali, corse parecchi anni (dal 1862 al 1868, come appare dalla nota del sindaco) il territorio tra le zone montuose di Mignano e i paesi del circondario, compiendo assalti, grassazioni, ruberie e sequestri. In particolare si ricorda l'assalto al paese di Galluccio, effettuato con un singolare stratagemma: alcuni briganti erano travestiti da carabinieri e fingevano di condurre altri briganti nella loro foggia, fintamente catturati. Le scorrerie non scemarono neppure quando dopo il 1865 in molte altre zone del Sud il brigantaggio era stato fortemente ridimensionato. Nel 1868 fu quindi mandato in quelle zone il generale Emilio Pallavicini di Priola con pieni poteri per dare una stretta decisiva alle misure repressive. A tali misure e alle minacce il Pallavicini seppe efficacemente usare le ricompense per le delazioni e le spiate, e proprio una spia fece cadere Michelina e il suo uomo in un agguato. I briganti vennero fucilati ed i loro corpi furono messi a nudo ed esposti nella piazza centrale di Mignano a monito della popolazione locale.


Michelina Di Cesare fece largo uso della fotografia per propaganda ideologica, facendosi ritrarre in costume tradizionale da contadina del luogo, armata di fucile e pistola. Il fotografo forse fu a servizio dei Borbone. Tuttavia le immagini che fecero scalpore furono quelle della propaganda sabauda. La guerra al brigantaggio fu infatti condotta anche con i media, facendo un uso capillare ed esteso della fotografia, che in quegli anni conosceva le sue prime diffusioni su larga scala. I fotografi al seguito delle truppe unitarie venivano chiamati sul posto della cattura o a seguito della uccisione di briganti. Michelina Di Cesare, uccisa nello scontro a fuoco, venne denudata insieme ai compagni uccisi con lei e fotografata. Dalle immagini appare profondamente sfigurata, tumefatta, come se avesse subito percosse, tali da aver generato l'opinione che fosse morta sotto tortura.