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La Lucania

Lucania nei Secoli

Liberamente tratto da "BREVE STORIA DELLA BASILICATA" di Palma Fuccella

La Preistoria



I primi segni di frequentazione umana rinvenuti in Basilicata si fanno risalire al Paleolitico inferiore, periodo in cui i territori in prossimità dei fiumi e dei bacini lacustri costituivano l'habitat ideale per l'Homo Erectus e le sue attività vitali di caccia e raccolta. Le testimonianze migliori di questa prima fase di civiltà sono emerse a Venosa dove nei pressi di antichi specchi d'acqua sono stati ritrovati anche i resti di specie faunistiche oggi estinte, come l'elefante e il rinoceronte, e sopravvivenze di lontanissime specie terziarie come il machairodus o tigre dai denti a sciabola. 
Ma sono le pietre millenarie a trasmetterci tenaci frammenti di vita preistorica, gli utensili per la lavorazione, come la Punta Musteriana ritrovata a Pane e Vino, fra Tursi e Policoro, oppure i ciottoli decorati con incisioni geometriche, segni di una scrittura embrionale a noi sconosciuta ed indecifrabile, rinvenuti nella grotta dei Pipistrelli ed in quella Funeraria di Matera. Tra il 25.000 ed il 15.000 a.C. nei lunghi e glaciali inverni del continente europeo, le caverne costituivano il miglior rifugio dell'uomo; proprio sulle pareti di quei remoti anfratti sono state ritrovate le prime raffigurazioni del mondo preistorico, i segni incisi o dipinti, di gruppi di cacciatori-raccoglitori, che rappresentavano animali o figure astratte, disegni-messaggio misteriosi e straordinariamente vivaci. In Basilicata sono emersi diversi rifugi preistorici: le grotte di Latronico e di Pietra della Mola a Croccia Cognato (Accettura) e il riparo di Tuppo dei Sassi presso Filiano dove è venuto alla luce un prezioso esempio di pittura rupestre del primo periodo postglaciale o Mesolitico. 

Con la fine della glaciazione del Würm, riferibile a circa 12.000 anni or sono, l'Europa e soprattutto i paesi del Mediterraneo, conobbero una fase di clima temperato che determinò profondi cambiamenti nell'ecosistema: i grandi mammiferi si portarono a quote più alte e l'economia degli uomini si orientò prevalentemente verso la raccolta di molluschi marini e terrestri, avviando quel processo di trasformazione che caratterizzerà poi l'economia produttiva del Neolitico, ovvero la fine del nomadismo e l'inizio della stanzialità legata ai raccolti. Durante il Neolitico, in condizioni climatiche molto simili a quelle attuali, fra il 7.000 ed il 5.000 a.C., gli uomini da cacciatori divennero allevatori, scoprendo l'agricoltura. A questa svolta epocale dell'umanità seguirono importanti innovazioni tecnologiche che facilitarono lo sviluppo di una nuova economia produttiva basata sulla fabbricazione della ceramica per la conservazione dei prodotti, la tessitura, la navigazione. Questo profondo cambiamento, conosciuto come la "rivoluzione neolitica" si identifica storicamente con la diffusione, avvenuta verso Occidente, di impulsi di civiltà maturati tra la Palestina e l'altopiano iraniano e giunti a noi attraverso il Mediterraneo.
Nel V millennio a.C. la cultura neolitica cominciò ad irradiarsi lungo i corsi dei fiumi raggiungendo anche le aree interne: i gruppi e le tribù non vivevano più nelle grotte ma in villagi di capanne disposte circolarmente, provviste di fossati difensivi, porte e palizzate. Tali evoluzioni sono state ben studiate nell'area di Tolve, Tricarico, Latronico, Alianello, Melfi, Metaponto e nella Murgia Materana, cogliendo anche informazioni di rilievo sia sull'habitat che sull'economia dell' Homo Sapiens Sapiens, basata sulla cerealicoltura e l'allevamento bovino e caprino. Dopo una fase climatica di tipo arido, che aveva impoverito i suoli e le coltivazioni, provocando un diradamento dei centri abitati, segue, a partire dal 1700 a.C., un rifiorire di insediamenti stanziali in aree in precedenza spopolate. Dediti all'agricoltura ed alla pastorizia, gli uomini dell'Età del Bronzo lavorano la ceramica ed i metalli, fabbricano utensili ed armi, intrattengono rapporti via terra e via mare. Attraverso la transumanza, in questa fase, si consolida la cosiddetta "cultura appenninica"; contemporaneamente, attraverso i corsi dei fiumi e le coste, si infittisce l'influenza micenea. E non distante dalle spiagge dello Ionio, a Pane e Vino, fra Tursi e Policoro, è stato scoperto uno dei primissimi documenti delle relazioni commerciali fra la Basilicata ed il mondo del Mediterraneo orientale: la tomba di un capo tribù coperta da lastroni di pietra e contenente uno scettro di comando, vasi con incisioni geometriche e una collanina in pasta vitrea, esemplare noto della produzione assiro-fenicia collegata al mondo miceneo. 
Alle necropoli, ritrovate in gran numero in Basilicata, sono in prevalenza dovute le informazioni dell'archeologia storica che, attraverso le diverse ritualità della sepoltura, ha potuto riconoscere connotazioni etniche e stabilire cronologie. Seppure maggiormente diffusa l'inumazione e la sepoltura in fosse terragne, con il corpo rannicchiato o supino, è sul finire dell'Età del Bronzo che compaiono le prime urne cinerarie, trovate in gran numero sulla collina di Timmari. Farebbe capo all'area della murgia materana, del resto, una delle più antiche produzioni di urne cinerarie in serie, diffuse fino al Vallo del Diano, dove gruppi di inceneratori pare intrattenessero rapporti con la Lucania interna già prima del IX sec. a.C.

In questo periodo, che coincide con l'inizio dell'Età del Ferro, si infittiscono gli spostamenti ed i commerci via mare dei popoli evoluti del bacino del Mediterraneo; gli etruschi incominciavano a navigare verso il Tirreno meridionale, diffondendo quel peculiare stile ceramico geometrico, ed i fenici instauravano le prime colonie nel Mediterraneo occidentale. Ed è proprio fra il IX e l'VIII sec. a.C. che gli archeologi hanno individuato una certa continuità nella cultura materiale di una vasta area della Basilicata (dalle foci del Bradano e del Basento fino all'Ofanto) unità comunemente definita enotria. 

Ma se fra le foci dell'Agri e del Sinni si erano insediati i Choni e nell'area del melfese si risentiva una chiara influenza daunia, chi erano gli Enotri? In realtà furono i coloni greci ad assimilare tutte le popolazioni indigene che occupavano le terre della costa ionica ad un unicum enotrio, al punto che, sia Strabone che Antioco finirono per descrivere anche i Choni, che abitavano tra la Sibaritide ed il Metapontino, come "una ben governata tribù enotria". 
Comunque sia, questa acquisizione degli storici greci è stata successivamente riconfermata, dagli storici e dagli archeologi, proprio per identificare quella fase di relativa unità culturale che caratterizzò i popoli di gran parte della Basilicata, e di aree limitrofe, dalla metà dell'VIII sec. a.C. ai primi del VII sec. a.C. 
Le comunità indigene della prima Età del Ferro erano organizzate in grossi villagi ubicati sugli altopiani, ai margini delle grandi pianure e dei corsi d'acqua, in luoghi consoni alla pastorizia ed all'agricoltura.
Agglomerati chiave di questa fase sono considerati S. Maria di Anglona, situata sul displuvio delle fertili valli dell'Agri e del Sinni, Siris ed Incoronata-S.Teodoro, disposti sulla costa Ionica; ed è proprio qui, sulla collina dell'Incoronata e su quella del Castello di Policoro che, sul finire dell'VIII sec. a.C., si registra la presenza dei primi coloni greci, provenienti dalla Grecia insulare e dall'Asia Minore, spintisi al di qua del Mediterraneo alla ricerca di terre fertili da coltivare.

I Greci


La colonizzazione di Siris, situata presso la riva del fiume omonimo oggi detto Sinni, avvenne sul finire dell'VIII sec. a.C. ad opera dei Colofoni, una colonia greca fuggita in Occidente per scampare alla dominazione Lidia. 
La fondazione di Metaponto, avvenuta nel 630 a.C. circa da parte degli Achei, porterà ad un primo frazionamento nell'area della costa ionica; e saranno due modelli coloniali sostanzialmente diversi a fronteggiarsi, quello acheo (Sibari, Metaponto) basato sulla centralità della terra e dello spazio agrario, delle cui conseguenze tratteremo più avanti, e quello sirita meno accentratore e maggiormente permeato dalle preesistenze indigene, anche nella metodologia di sfruttamento della terra.
Nel corso del VI. sec. a.C. ognuna delle due città era ormai padrona di un territorio molto vasto (chorà) al punto che l'influenza di Metaponto era ormai estesa fino a Pisticci e Montescaglioso e, quella di Siris, fino a S. Maria D'Anglona e Montalbano, la cosiddetta Siritide. 
L'arrivo dei coloni greci, che fu dapprima sporadico e poi massiccio, comportò numerose conseguenze e alterazioni dell'ambiente fisico dell'area costiera ionica e delle aree interne, raggiunte mediante le valli fluviali.
Ed è proprio all'insistente ricerca di nuovi terreni da coltivare (prevalentemente per cereali ed ulivi) che si attribuisce il forte disboscamento e la conseguente erosione dei versanti argillosi perdurata fino agli inizi del III sec. a.C. ed alla quale si possono far risalire quelle forme calanchive che tutt'oggi caratterizzano il paesaggio dell'area orientale della Basilicata. Ma, aldilà di queste tragiche conseguenze dovute alla forte pressione antropica, è indubitabile che le spinte culturali provenienti dal mondo greco determinarono una importante svolta di civiltà in Basilicata, trasformandone la cultura e la geografia interna. Molti insediamenti, risalenti all' VIII-VII sec. a.C., sono stati ritrovati nelle aree interne del Vallo del Diano e della Val D'Agri, ricche e numerose necropoli nelle quali è stato possibile rintracciare le fila di quella sostanziale unità etnica di cui parlavamo precedentemente: utensili in argilla ben depurata con disegni geometrici a tenda, ceramica enotria, armi e accessori - connotazioni distintive dei guerrieri-, oggetti e "parures" femminili che caratterizzavano lo status principesco di alcune donne della società del tempo.

Con gli scavi condotti ad Alianello, Armento, Roccanova, Incoronata, Cozzo Presepe, Pisticci e Serra di Vaglio, emerge come proprio la Lucania interna, in questa fase, si caratterizzi quale importante crocevia di ethnos diversi, così come evidenzia la diffusione di oggetti di lusso, di chiara matrice etrusca, e l'affermazione dei costumi e dell'organizzazione sociale ellenica (adozione dell'armamento greco e comparsa della figura del cavaliere). 

Questa convergenza di culture si imprimerà nel sostrato indigeno "enotrio", creando condizioni di civiltà ed impulsi di progresso inusitati, come ampiamente dimostrano i ritrovamenti dell'area del Melfese e quelli di Serra di Vaglio. Qui, in particolare, la presenza di un imponente santuario (l'area sacra di Braida), dalle caratteristiche strutturali e stilistiche molto evolute, e di grandi edifici decorati nello stile Metapontino e Poseidoniate , testimoniano di una realtà civile e sociale molto ben strutturata e certamente mediata dalle mature esperienze delle due città costiere.
Altro nodo importante, come dicevamo, era costituito dall'area del Melfese che, grazie al fiume Ofanto, incrociava importanti itinerari di scambi. Una conferma di questa facilità e continuità di rapporti arriva dagli scavi effettuati nelle grandi necropoli di Pisciolo e Chiuchiari e in quelle di Ruvo del Monte dove, i ricchi corredi funerari, presentano i segni e le influenze del mondo daunio ( i vasi riccamente decorati), di quello etrusco (vasi e candelabri in bronzo) e di quello greco (le coppe ioniche e vasi di imitazione locale). 

Fra il VI ed il V sec. a.C. però, questo ipotizzabile equilibrio tra coloni greci ed "enotri" viene intaccato, provocando una trasformazione improvvisa nel quadro territoriale della Basilicata dove alcuni degli insediamenti più fiorenti, ricaduti nel raggio delle chorai greche, scompaiono (l'Incoronata e S. Maria di Anglona), mentre altri, soprattutto nelle zone più interne della regione, si fortificano presentando una loro evoluta strutturazione 
interna. È quanto avviene a Pisticci, Ferrandina, Montescaglioso, Timmari, Garaguso, Ripacandida e Satriano, dove si costruiscono sia le prime cinte fortificate che alcuni importanti santuari, ubicati presso le sorgenti e prevalentemente votati a divinità femminili . 
Questa trasformazione interna si colloca in un quadro storico estremamente movimentato che, sul finire dell'età arcaica, vede gran parte dell'Italia e dei suoi gruppi etnici coinvolti in una moltitudine di conflitti ed avvicendamenti, che avrebbero azzerato e riformulato gli equilibri territoriali costituitisi fino a quel momento. 

Le ostilità si aprono tragicamente nel 510 a.C. con la distruzione di Sibari per mano dei Crotoniati, un avvenimento che trasformerà radicalmente le sorti economiche dell' area della Magna grecia che perdeva, così, la città più rappresentativa. Con Sibari, di fatto, si distruggeva un'esperienza politica a forti coloriture democratiche alla quale si opponeva, vittoriosamente, il modello pitagorico di Crotone, ispirato ad un acceso conservatorismo. Ma se la città fu distrutta, provocando nuovi equilibri nella gestione dei traffici sul Mediterraneo, le spinte democratiche, invece, le sopravvissero determinando quei movimenti antioligarchici che tanto avrebbero inciso nella ristrutturazione della società del tempo; lo stesso Pitagora venne poi esiliato finendo i suoi giorni a Metaponto.

I Lucani


Fra il V ed il IV sec. a.C., intanto, frequenti fenomeni alluvionali avevano provocato il sollevamento della falda freatica e l' abbandono di molti centri abitati. Ma insieme a questo evento, sul finire del V sec. a.C., arriva qualcos'altro a turbare o a mutare i delicati equilibri delle popolazioni "enotrie" della regione: i Lucani. 
Quale sia l'origine di un nomen così devastante sul piano letterario, tanto da imporsi repentinamente e cancellare, nelle pagine degli storici del tempo, qualunque riferimento ai gruppi etnici precedenti, è difficile ancora stabilirlo. 
Di certo, rispetto alle ricerche ed alle testimonianze pervenuteci, si evince che i Lucani dovevano discendere dai Sanniti 
(genti italiche provenienti dal Molise e dalla Campania) a loro volta discendenti da una più antica unità etnica originatasi in un'area compresa fra le Marche e gli Abruzzi, ovvero i Sabini (Safinim in osco = Samnium). 
Fra le radici filologiche più accreditate del nomen lucano figura Luc che in sanscrito farebbe riferimento alla luce, così come nell'idioma latino e in quello delle genti sabelliche; ipotesi che trova conferma anche negli studi riguardanti le origini semite del nome, dove Luachan è lo splendido, il luminoso. 
Ma aldilà di tale attribuzione, ciò che resta ancora oscuro sono le modalità e le cause di questa massiccia immigrazione che, iniziata sul finire del VI sec. a.C., determinò una trasformazione profonda dell'identità etnica della Basilicata. Una delle ipotesi più credibili è quella che attribuisce la migrazione delle genti italiche all'urgenza di manodopera per l'agricoltura e l'artigianato, ma anche al mercenariato, sollecitato da una certa aggressività di questi popoli, votata al dio guerriero Mamars (Mamerte o Marte), 
credenza di cui offrono testimonianza i numerosi ritrovamenti delle necropoli e dei santuari lucani. 
Sopraffatte o pacificamente assorbite le popolazioni indigene, è proprio fra il VI ed il V sec. a.C. che si assiste alla crisi di molti nuclei abitativi antichi ed alla nascita di nuovi. 

Certo gli effetti dirompenti dell'azione espansiva di questo popolo si colgono nella conquista delle colonie greche di Poseidonia (Paestum) e Laos, città forti e ben difese ai tempi dell'occupazione lucana avvenuta tra il 421 ed il 389 a.C. Confidando in una indiscussa forza militare i Lucani si spinsero ripetutamente anche sull'altra costa, iniziando una serie di combattimenti contro le colonie greche dello Ionio: Thourioi, Heraclea, Metaponto e Taranto. 
A questa fase di espansione, compresa fra il V ed il IV sec. a.C., si fa risalire l'edificazione di alcuni importanti centri fortificati, situati sui rilievi e a guardia dei fondivalle, come Serra di Vaglio, Torretta di Pietragalla, Civita di Tricarico, Monte La Croccia, Torre di Satriano, Pomarico e, molto probabilmente, Grumentum. Nell'assetto urbano dell'abitato di Serra di Vaglio, in particolare, appaiono evidenti le trasformazioni sopraggiunte all'insediarsi dei Lucani i quali frazionarono le case in unità abitative più ridotte, proteggendole con una consistente cinta muraria. 
Coevi risultano, come dicevamo, anche la maggior parte dei santuari maggiori e minori della regione, fra cui Contrada 
Lentine di Civita di Tricarico, Serra Lustrante di Armento e il Santuario di Mefite a Macchia di Rossano, che diverrà un luogo di culto di rilevanza straordinaria. E proprio il ritrovamento di quasi cinquanta iscrizioni su pietra nei pressi del Santuario di Rossano ha reso possibile la ricostruzione del nucleo della vita materiale e religiosa dei Lucani, i costumi, le istituzioni e la lingua, quell'osco-umbro, comune ai popoli italici, mediato dall'alfabeto greco. 

La società lucana appare -senza per questo voler definire un quadro unitario, per altro insostenibile sul piano delle fonti- guidata da un'oligarchia molto ristretta ed estremamente ellenizzata, ben armata e difesa nei suoi insediamenti fortificati. Alla ricca e ristretta oligarchia, all'incirca nella seconda metà del IV sec. a.C., va ad affiancarsi una classe sociale intermedia alla quale si deve, in questa fase, il ripopolamento delle campagne (come testimoniano le numerose piccole necropoli ritrovate lungo la val d'Agri) e la costruzione di grandi fattorie a conduzione familiare, come quella di Moltone di Tolve.
Tale trasformazione avvenne in seguito all'estendersi di quei fenomeni di emancipazione, che avevano investito il paese dall'Etruria alla Sicilia ( dall'esperienza sibarita alla cacciata di Tarquinio nel Lazio ed alla riaffermazione del partito delle riforme "serviane"), che portarono al superamento delle società arcaiche; per questi stessi motivi, i Lucani dovettero affrontare la rivolta dei Brettii e accettarne la liberazione nel 356 a.C., in seguito alla quale si verificò la definitiva scissione del Bruttium dalla "Grande Lucania". 

I complessi rurali sviluppavano un'economia basata su colture specializzate, come la vite e l'olivo. e gravitavano nell'area di importanti luoghi di culto (nel caso di Moltone di Tolve, il vicino santuario di Rossano), testimoniando una contiguità religiosa dei ceti aristocratici rispetto a quelli intermedi e l'importanza peculiare, nella vita sociale del tempo, di questi luoghi sacri, legati prevalentemente ai culti di fertilità femminili: Mefite Utiana a Rossano ed Hera Ilizia sul Sele. Ma accanto alle dee protettrici, i lucani, a quanto pare, celebravano il dio guerriero Mamertius, come si evince dagli ex voto rinvenuti a Rossano, nelle stesse stipi votive dedicate alla dea Mefite, così come in altri corredi tombali dell'epoca, ricolmi di schinieri, frammenti di elmi e cinturioni, armi e modellini di carri da guerra.

L' aggressività di questo popolo, che fondava la propria forza sull'adozione di tattiche militare mutuate dal mercenariato nelle città greche, costituì un pericolo costante per le colonie della costa ionica che, nonostante avessero formato una lega, con sede ad Heraclea (città fondata sul finire del V sec. a.C. presso l'odierna Policoro) dovettero più volte ricorrere ad aiuti dalla madrepatria.
Il modello delle città-stato che in un certo senso aveva determinato e governato gli equilibri politici dell'età arcaica, a causa delle spinte egemoniche provenienti da più parti, sul finire del IV sec. a.C. decadde, inaugurando una stagione di conflitti lunga e, sul piano delle alleanze, molto confusa.
La Basilicata, in questa fase, sarà in un certo senso vittima del fervore espansionistico dei Lucani, contemporaneamente costretti a difedersi dalle incursioni sannite a nord (di cui testimoniano le necropoli di Valleverde e Cappuccini di Melfi), dalle offensive dei Locresi e di Dionigi II - che dalla Sicilia tentava di estendere la sua egemonia nel Sud della penisola - e dall'avanzata di Archidamo di Sparta prima e di Alessandro il Molosso poi, venuti dalla madrepatria in difesa di Taranto e delle città della Magna Grecia.
Nel corso del III sec. a.C., gli effetti di questa prolungata fase di conflitti saranno devastanti spalancando le porte ad un lungo ed inesorabile processo di pauperizzazione della società, ben evidenziato dall'abbandono di gran parte degli insediamenti preesistenti. A questo impoverimento generalizzato aveva influito in maniera cospicua l'impegno dei Lucani su più fronti ed al fianco di alleati diversi, anche in veste di mercenari.

I Romani


Da questo periodo convulso in cui si verifica l'ascesa dei Galli, il conflitto fra Romani e Sanniti per il controllo del centro della penisola e la spedizione di Pirro re dell'Epiro, tesa a ristabilire l'unità dei territori della Magna Grecia, emergerà improvvisamente l'egemonia di Roma che, fiaccate le resistenze di Etruschi, Galli e Sanniti, e respinto Pirro, si presentava di prepotenza come la forza dominatrice del panorama politico italico.
I Lucani avevano conosciuto i romani intorno al 330 a.C. quando con questi costituirono un'alleanza "strumentale" utile a fronteggiare la pressione sannita a nord e quella italiota a sud. Ma la durata del consesso fu davvero breve perché i romani, già nel 325 a.C., stabilivano un presidio strategico a Luceria, evidenziando forti mire espansionistiche verso sud. 
Con il sostegno offerto ai Thurini nel 282 a.C., ancora una volta minacciati dalla potenza militare lucana, i romani facevano il loro ingresso ufficiale nello scacchiere della Magna Grecia: quando contravvenendo ai patti alcune navi romane oltrepassarono il capo Lacinio, presentandosi a mo' di sfida innanzi al porto di Taranto, la reazione della città fu immediata e violenta; le navi furono distrutte e si apriva la guerra tarentina. In difesa della città ionica sbarcò a Taranto Pirro, re dell'Epiro che, appoggiato dai Lucani, ottenne una prima vittoria nella durissima battaglia campale combattuta fra Pandosia ed Herakleia nel 280 a.C.; ma nel 276 a.C. Pirro venne duramente sconfitto a Maleventum e di lì costretto a rinunciare ai sogni di una restaurazione del dominio greco e tornare in patria con ciò che rimaneva del suo imponente esercito di uomini ed elefanti. Questa svolta determinò la resa di Taranto, avvenuta nel 272 a.C., e l'estensione immediata del predominio romano sulle colonie greche del sud della penisola. Nel 273 a.C. intanto, insistendo sulle città che garantivano importanti accessi sul Mediterraneo, Roma aveva conquistato il primo e, fino ad allora, incontrastato presidio lucano sul Tirreno, Paestum.
La politica romana, già tendenzialmente poco incline a favorire un'autonomia sociale ed economica delle proprie colonie, futuro ancor peggiore destinava ai "ribelli". Si desume pertanto che lo spopolamento di insediamenti e campagne registrato in Basilicata nel corso del III sec. a.C. sia la conseguenza delle dure condizioni perpetuate dalle leggi romane; queste prevedevano il sequestro dei suoli, generalmente i più fertili, concessi poi in affitto ai facoltosi patrizi o agli aristocratici del luogo che li sostenevano, e qui parliamo di quelle grandi estensioni impopolarmente denominate ager publicus . Tale diffusa speculazione portò ad una trasformazione radicale sia dell'assetto economico e sociale, con la scomparsa dei ceti intermedi e l'aumento spaventoso della manodopera servile, sia del territorio, con l'affermazione indiscriminata del latifondo. La maggior parte dei terreni, al centro dei quali sovente sorgevano sontuose ville patrizie, venne destinata dai romani al pascolo ed alla monocoltura, con una ostinazione che provocò fenomeni di impoverimento ed erosione dei suoli tali da impensierire gli stessi agronomi romani.
Se la conquista seguita alla resa di Taranto aveva imposto ai nuovi popoli soggetti lo status di socii , vale a dire alleati con l'obbligo di fornire truppe agli eserciti imperiali, con la sconfitta di Annibale avvenuta nel 206 a.C. -al fianco del quale avevano combattuto frange numerose di Lucani nella speranza di un riscatto sociale- il governo di Roma apriva una fase ancor più restrittiva che prevedeva il sequestro di ulteriori terreni e il rafforzamento degli organi di controllo (praefecturae). In questa fase, oltre alle campagne, si verificò l'abbandono di Laos e il declino di Serra di Vaglio, al quale faceva eco la fondazione di Potentia. Avamposti romani di primaria importanza strategica, nell'interno della regione, divenivano Venusia a nord - fondata già nel 291 a.C.- e Grumentum a sud. Venosa fu presto collegata dai romani all'importante asse viario che da Roma, attraverso Capua, raggiungeva Taranto e Brindisi, la via Appia, e dotata di un grande acquedotto composto di una profonda galleria nella quale confluiva l'acqua dalle falde. I dati archeologici riferiti a Grumentum, città posta sulla val d'Agri, adombrano la continuità fra il primo inediamento lucano e il successivo municipium romano, che doveva essere di grande importanza strategica già nel corso del III sec. a.C. quando fu teatro di due durissime battaglie fra Roma e Cartagine, nel 215 e nel 207 a.C. 
Fra il III ed il II sec. a.C., il modello urbano di Roma si impose in maniera dirompente, come dimostrano la crescita politica, sociale e produttiva di Venosa e di Paestum, le uniche città che conservarono una monetazione autonoma anche nel corso dell'età Imperiale. Nelle città, esempio di rinnovata civiltà e progressoconfluivano in gran numero le popolazioni rurali, provocando esodi massicci dalle campagne. L'abbandono delle terre, contro cui nulla poterono le colonizzazioni imposte dagli Scipioni e dai Gracchi negli ultimi decenni del III sec. a.C., coincise con il declino delle tradizioni indigene evidenziato, dagli scavi archeologici, nell'impoverimento dei corredi funerari di quel periodo. A determinare tale povertà diffusa e la crisi demografica che ne conseguì, nel II sec. a.C., contribuirono le continue e spietate guerre sociali, fra cui quella seguita alla deposizione di Marco Livio Druso, e la "guerra servile" condotta da Spartaco, che saccheggiò e devastò gran parte delle province romane dell'Italia meridionale, prima di essere fermato dalle truppe di Marco Licinio Crasso nel 71 a.C . 
Grazie soprattutto alle antiche tradizioni mercantili ed artigianali, Herakleia e Metaponto riuscirono, fino al I sec. d.C., a conservare consistente vivacità e benessere; e se i nuovi cicli delle istallazioni portuali in un certo sensescludevano dalla gestione delle rendite i cittadini locali, altrettanto non avveniva per le produzioni di ceramica che ben rispondevano alle esigenze della clientela d'elites di fine Repubblica e ai bisogni della diffusa ideologia della luxuria romana (ceramica a vernice nera, piccola oreficeria, specchi, strigli, etc.). In seguito al passaggio di Spartaco però, l'archeologia documenta una progressiva decadenza di Herakleia conclusasi con l'abbandono definitivo del quartiere occidentale avvenuto nel I sec. d.C.

Con il procedere dell'età Imperiale, al tracollo di Herakleia si contrapponeva il vigore di Grumentum che diveniva uno dei centri più ricchi ed importanti della Lucania romana (come testimoniano la presenza del foro, dell'anfiteatro, dei templi e delle ricche domus), con una giurisdizione estesa fino all'antico territorio della Siritide.
Nel resto della regione gli antichi oppida, pagi e vici erano ormai scomparsi per far posto ai municipia, alle coloniae ed alle villae dei ricchi proprietari romani; i luoghi sacri e le tradizioni di culto (fatta eccezione per un estremo risveglio della pietas indigena testimoniato dagli interventi di restauro degli Acerronii sul Santuario di Macchia di Rossano) vengono soppiantati dai nuovi templi e da una mentalità religiosa d'ispirazione bacchica, ben lontana dai culti dionisiaci preromani; "al dono votivo simbolico -statuette, oggetti reali o miniaturizzati- si sostituiscono le monete di argento e di bronzo" e il culto dell'Imperatore; alla lingua osca delle genti italiche ed all'alfabeto greco, infine, si sostituì il latino e l'omologazione potè dirsi compiuta.
Ed è alla fine di questo processo di conquista politica e culturale di Roma che Strabone, parlando dei Sanniti, dei Lucani e dei Brettii, riferiva: "Sono ridotti in condizioni così cattive (...) che è anche difficile distinguerne l'insediamento: la ragione è che di nessuno di quei popoli sopravvive una forma organizzativa comune, che ne sono scomparse le caratteristiche differenze di lingua, di armamento, di abbigliamento e così via (...)". 
Insomma, il tessuto sociale, politico ed economico della Basilicata si era radicalmente trasformato allor quando l'Imperatore Augusto attribuì ufficialmente il nome di Lucania e Bruzio alla III circoscrizione italica, nel nuovo ordinamento amministrativo della penisola teso ad agevolare un maggiore e più efficace controllo sulla popolazione (censimenti e riscossione delle imposte); ma quali che fossero le motivazioni e le intenzioni di Augusto bisogna sottolineare che proprio questa riforma e l'unità politica romano-italica che ne scaturì, determinarono il propagarsi del nome e del concetto di "Italia" dal Mezzogiorno alle Alpi. 
Dell'economia della Lucania in epoca Imperiale giungono informazioni dai testimoni del tempo. Numerosi infatti sono i testi che fanno riferimento all'allevamento dei suini (una razza speciale a setola nera) e ad una tanto decantata carne salata insaccata; frequenti le citazioni alle greggi ed alle produzioni lanigene -"omnia lucanae donent pecuaria silvae"-; famosi poi erano i buoi ed anche gli orsi, costretti ad esibirsi nei "teatri" della capitale; ancora molto citata la selvaggina che confluiva in abbondanza sulle tavole degli insaziabili banchetti romani.
Sul piano amministrativo, se Augusto aveva rispettato le autonomie dei municipi secondo i termini della legge Giulia, Adriano divise l'Italia in quattro circoscrizioni giudiziarie, proponendo per ciascuna un Consolare addetto agli affari dell'amministrazione e della giustizia. Con Marco Aurelio, nel momento di maggiore vigore dell'Impero romano, i Consolari ebbero il nome di Giuridici, ed è a questo periodo che appartiene uno dei pochi amministratori menzionati in un testo dell'epoca, quel Q. Erennio Silvio Massimo, Giuridico per la Calabria, la Lucania e i Bruzii. Con Diocleziano, Imperatore nel 285 d.C., sarà il Correttore il supremo governatore delle province di Lucania e Bruzii, ovvero l'ultimo magistrato di cui si abbia nota fino alla caduta dell'Impero Romano d'Occidente. 
Ma a questo punto della dominazione romana la Lucania non conosceva nient'altro che lo spettro della sua antica floridezza economica e sociale, tagliata anche fuori dalle grandi vie di comunicazione che, solo nella parte nord-orientale, con la via Appia, riuscivano a consentire un certo vigore economico a Venosa, Lavello e Matera. Altri punti di riferimento nella parte interna della regione erano Potentia, Grumentum e Nerulum, quest'ultima attraversata da quell'antica Popilia fatta tracciare dal Console Popilio Lenate nel 132 a.C., collegamento viario principale fra Roma e l'Africa.
Mentre si assisteva alla progressiva decadenza di Metaponto ed Herakleia, ridotti a semplici praesidium fra il II ed il III sec. d.C., al centro dei latifondi sorgevano le ricche ville romane, come quella di Cugno dei Vagni allo scalo di Nova Siri, in una fase in cui il territorio e l'habitat della regione subivano colpi mortali, evidenziati dal dilavamento cospicuo dei fiumi, in parte navigabili, attraverso i quali cominciava il disastroso sfruttamento dei boschi. Allo splendore dell'Impero Romano, che proprio tra il I ed il III sec.d.C. raggiungeva la massima influenza estendendo rapporti commerciali fino alla lontana Cina, faceva dunque ombra un graduale impoverimento di quelle antiche province italiche che pure erano state culla di grande civiltà, come la Lucania. Ma presto questa crisi si sarebbe estesa fino a ledere il cuore stesso dell'Impero, assumendo le dimensioni di un generale tramonto della società antica. La pressione dei barbari sui confini del nord dell'Italia e il rafforzarsi del livello di sviluppo economico e commerciale delle province orientali dell'Impero, avrebbero presto minacciato l'equilibrio politico e la supremazia di Roma, costretta a combattere su più fronti per contrastare il riemergere di rivendicazioni etniche (perlopiù originate dal fatto che i popoli orientali non avevano mai rinunciato nè alla lingua nè tantomeno ai propri costumi) e religiose, quest'ultime soffocate nella violenta persecuzione anticristiana ordinata da Diocleziano. La diffusione della fede in Lucania, fra III e IV sec., è documentata un pò su tutto il territorio, come dimostra la presenza accertata di chiese paleocristiane a Potenza (nel luogo in cui sarà costruito il Duomo), nella zona del Vulture ed a Metaponto; a Venosa, in particolare, oltre alle fondamenta di una chiesa paleocristiana databile al IV sec. d.C., sono stati riportati alla luce una catacomba ed un sepolcreto con epigrafi datate a partire dal 503 d.C. 
Nel 305 d.C. l'Imperatore Diocleziano abdicava e lo stesso faceva anche l'altro Augusto, Massimiano Herculeo, trasferendosi nella sua villa di Grumentum; ed è a questi che si deve la costruzione dell'Herculea, l'importante asse viario che collegava dall'interno la via Appia con la Popilia, attraverso Venosa, Potentia, Anzi, Grumentum e Nerulum, e la Via Appia con l'Appia Traiana mediante Oppido, Cirigliano ed Herakleia.
Il peso della fase di conflitti unilaterali in cui Roma era impegnata fra III e il IV sec. d.C., gravava naturalmente sull'esercito romano che doveva essere costantemente rinforzato e rinnovato, decretando il conseguente aumento delle tasse, imposte perlopiù all'agricoltura. Sottomessi ad un regime fiscale insostenibile, gran parte dei contadini abbandonarono le terre ed il latifondo sbaragliò nelle antiche e ricche province italiche generando miserie, carestie ed una profonda crisi demografica. Ed è in questo scenario che si preparava l'infiltrazione dei barbari e la caduta definitiva dell'Impero Romano d'Occidente, con l'antica capitale ridotta a mera sede di un esautorato ed impotente senato, e la nuova capitale, trasferita a Costantinopoli, a rappresentare il rinnovato cuore economico, politico e commerciale dell'Impero. In seguito alla morte di Teodosio, il successore di Costantino che per ultimo riuscì a fronteggiare gli assalti dei barbari ed a tenere alta l'egemonia di Roma, l'Impero venne diviso irrimediabilmente fra Occidente, con capitale a Ravenna, ed Oriente con capitale a Costantinopoli, l'antica Bisanzio. 
Sul finire del IV sec. d.C. la spinta dei barbari a nord si faceva sempre più pressante fino a che, nel 410 d.C., i Visigoti guidati da Alarico giunsero a Roma percorrendo poi tutta la penisola fino a Reggio, dove intesero stabilire i confini meridionali del proprio regno. Per la Lucania, come per l'intero paese, con il V sec. d.C. si apriva un periodo veramente buio, anche sul piano delle testimonianze storiche, poiché ben poche notizie ci sono state tramandate sui primi decenni delle invasioni barbariche. Di rilevante possiamo dire che la spinta delle popolazioni gote, dal Centro verso il Sud, dovette essere il motivo che convinse i pastori a deviare il tradizionale percorso della transumanza dagli Abruzzi alla Puglia, su un asse più sicuro che dalla Valle dell'Ofanto raggiungeva il Vulture e l'Irpinia. Tale movimento incise molto sul rilancio dell'area nord-orientale della regione tanto che fra il IV ed il V sec. d.C. il centro della vita economica si spostò decisamente dalle valli dell'Agri e del Sinni verso il Vulture-Melfese, provocando l'abbandono definitivo della costa Ionica, ormai malarica ed incolta, una diserzione dalle valli che assumeva sempre più i connotati della disperata difesa. Ed è appunto per le sue caratteristiche topografiche che quel "valido arnese da guerra" che fu Acerenza avrebbe acquisito valore strategico di grande rilievo nel primo e bellicoso scorcio di Medioevo.
Nel 476 d.C., al culmine di un'ondata di occupazioni e guerre barbariche, l'ultimo Imperatore d'Occidente, Romolo Augustolo, veniva deposto per mano di Odoacre capo degli Eruli. Iniziava così, inesorabilmente, il tramonto dell'Impero Romano d'Occidente, mentre un altro popolo germanico si accingeva a varcare i confini delle Alpi Orientali per conquistare l'Italia, gli Ostrogoti guidati da Teodorico, vicende queste che per convenzione sono poste all'inizio del Medioevo. Ma l'avvenimento della destituzione di Romolo Augustolo al quale la periodizzazione storica conferisce il ruolo di spartiacque fra Età antica e Medioevo, in realtà non determinò una cesura così netta nel tessuto economico e sociale del tempo; poiché, se da una parte una sorta di prologo del Medioevo poteva esser visto nella profonda crisi in cui fra III e IV sec. d.C. erano cadute le province italiche dell'Impero d'Occidente, dall'altra bisogna evidenziare che la politica dei Goti si basò essenzialmente su una stretta collaborazione con l'aristocrazia senatoriale romana, adottando una linea di continuità rispetto agli ordinamenti giuridici ed amministrativi precedenti. La crisi raggiunta dalle province italiche nel IV sec. d.C. aveva ridotto la società e l'economia allo stremo. Il sistema delle coemptiones, basato sull'ammasso obbligatorio dei prodotti agricoli per il fabbisogno dell'esercito e dell'amministrazione, aveva prostrato la popolazione e ridotto a nulla le risorse. Non solo le campagne, ma anche le città erano ormai sfinite da un'economia di mercato insostenibile. 
Nel 493 d.C. si inesediava a Ravenna il re degli Ostrogoti Teodorico il quale, subordinando il suo dominio a quello dell'Imperatore bizantino, alla forza militare degli Ostrogoti affiancò l'aristocrazia senatoriale romana e le sue strutture organizzative, conservando i caratteri e il funzionamento dell'economia di mercato precedente. In questo modo Teodorico riuscì a restituire un certo vigore alle depauperate province d'Occidente, ma la ripresa non interessò le popolazioni meridionali che, provate dalle ingenti tasse sull'agricoltura, continuarono di fatto a subire le conseguenze della dominazione romana: il peso dell'esercito e delle amministrazioni continuava a gravare sui coloni e sui contadini, obbligati a colmare le riserve rege ed a commerciare solo quanto vi eccedeva; inoltre, l'estensione del diritto di arruolamento nell'esercito contribuì massicciamente all'abbandono delle "gravose" campagne, tanto che nemmeno la riduzione delle imposte, ordinata da Teodato, subentrato al potere nel 535, riuscì a frenarne l'esodo.
Anche la Lucania dovette provvedere ad ospitare le guarnigioni gote dislocate nel regno, hospitalitas che si risolveva prevalentemente nella confisca e nella ripartizione delle terre sottratte agli antichi possessores nella misura di un terzo, cosa che provocò non poco scontento nella categoria dei proprietari terrieri. Solo la parte nord orientale della regione riuscì a sottrarsi al generale decadimento. Vivace e fiorente è in questo periodo l'attività commerciale di Venosa che ospita una antica e ben inserita colonia ebraica, nerbo di un'economia basata sull'agricoltura (grano e frumento), il commercio e l'artigianato. Per la sua posizione dominante Acerenza è invece, negli stessi anni, sede prediletta e roccaforte delle guarnigioni gote, centro politico ed amministrativo di primaria importanza. Nella valle del Diano, in quegli stessi anni, lungo le rive della Marcelliana, fra Padula e Montesano, aveva luogo uno dei più importanti mercati dell'intero Mezzogiorno, di cui narra Cassiodoro, attento osservatore dell'epoca e testimone privilegiato per aver esercitato cariche di controllo nel governo di Teodorico (corrector Lucaniae et Bruttiorum) proprio nella III Regio. Il 16 settembre di ogni anno, la fiera di S. Cipriano richiamava mercanti, artigiani e allevatori di tutte le regioni circostanti; ma fra le righe delle Variae, senza per questo scorgervi nota di sorpresa o diniego, si apprende che in quella fiera, così popolosa, venivano ancora venduti giovani ragazzi come schiavi, eco di una condizione umana disperata.
Ma sulle sorti dell'Italia un'altra nube si affacciava minacciosa da quando Giustiniano, salito sul trono dell'Impero di Bisanzio, coglieva nella ripresa d'Occidente e nell'autorità per nulla remissiva del Papa di Roma, motivo per scatenare un nuovo conflitto. Sostenuto dall'idea di liberare l'Impero dal giogo dei barbari e degli infedeli, Giustiniano ordinò la riconquista dell'Italia. Nel 536 un forte esercito bizantino guidato da Belisario sbarcava a Reggio ed in men che non si dica risaliva e conquistava le regioni del Sud che, secondo la testimonianza di Procopio di Cesarea, al seguito dei bizantini, supportarono ed accolsero il generale come un liberatore, stanchi delle vessazioni dei Goti. 
Nel dicembre del 536 Belisario entrava vittorioso in Roma mentre Giovanni il Sanguinario sbarcava ad Otranto, inviato da Giustiniano a controllare le regioni del Sud; cominciava così quella lunga e violenta "guerra gotica" di cui il Mezzogiorno, ed in particolare la Lucania, sarebbero stati teatro per oltre vent'anni. I Goti ed i Bizantini si avvicenderanno più e più volte nel controllo della regione, soprattutto della sua parte orientale, istruendo per altro promesse diverse nel tentativo di aggregare e far combattere il popolo alle cause dell'uno o dell'altra.
Quando i Goti, sconfitti da Giovanni il sanguinario a Brindisi, ripararono ad Acerenza, l'epicentro dello scontro si spostava in Lucania, sottoposta a razzie e distruzioni d'ogni tipo. Ed è a questo punto, sempre secondo la testimonianza di Procopio di Cesarea, che nel vivo della "guerra gotica" entrò un esercito di Lucani, guidato da Tulliano, figlio di Venanzio, potentissimo correctores romano. Questi riuscì ad aggregare gran parte dei proprietari terrieri vessati dalle "ripartizioni" gote, incitandoli a contrastare le orde dei barbari che avevano devastato le terre. Ottenuta la rassicurazione del perdono dell'Imperatore, da parte di Giovanni il sanguinario, Tulliano e il fratello Deoferonte si posero alla guida di un folto drappello di uomini riuscendo a fermare i Goti inviati a rafforzare il presidio di Acerenza.
Totila però seppe abilmente mettere gli uni contro gli altri i Lucani, promettendo di assegnare terre ai coloni sottraendoli dall'obbligo di pagare i tributi ai ricchi proprietari terrieri. Vinti naturalmente da tale generosa promessa i contadini si shierarono con i Goti, scatenando una violenta guerra civile. Uccisi Totila e Teia, sul finire del 553 i Bizantini erano ormai padroni della situazione se non per un unico fronte aperto, quello di Acerenza; ma la lotta dei Goti era senza speranza perché il paese, stremato da carestie e pestilenze, fu costretto ad arrendersi a Narsete. Rifugiatisi a Conza, dopo la definitiva sconfitta del 555, i Goti furono infine deportati in massa a Bisanzio.

I Bizantini


Dopo venti anni di guerra sanguinaria lo spettacolo offerto dalle regioni italiche doveva essere agghiacciante poiché seppure la Lucania conosceva già da qualche secolo un progressivo declino economico e sociale, la guerra gotica le inferse un colpo mortale. La restaurazione bizantina, con la Prammatica sanzione promulgata da Giustiniano il 14 agosto del 554, stabilì le rigide leggi dell'assoggettamento dei territorio conquistati, divenuti ora province dell'Impero. Il fiscalismo bizantino non risparmiò un paese stremato dalla guerra e, sulla base dell'antico ordinamento romano, riimpose obblighi sugli scambi e le vendite, attraverso cui si garantiva il drenaggio di danaro e risorse a favore delle grandi proprietà fondiarie e delle città residenziali delle aristocrazie. L'egemonia di Costantinopoli cominciò presto ad interessare anche la sfera religiosa, in una Lucania ampiamente cristianizzata, in cui la chiesa e le comunità monastiche rappresentavano una realtà concreta già a partire dal V sec. d.C., come si evince dall'Epistola di Papa Gelasio che documenta, nel 494, la presenza di tre Vescovi lucani: Stefano di Venosa, Erculenzio di Potenza e Giusto di Acerenza. Alle comunità monastiche uniformate alla Regola monacarum di Benedetto da Norcia si affiancarono presto le laure dei Basiliani di rito ortodosso, incalzate da un crescente flusso migratorio greco bizantino. Ogni comunità era isolata e cinta da mura con una economia basata sull'agricoltura e sui contributi dei fedeli, un microcosmo che riusciva a sottrarsi al fiscalismo giustiniano.

Il praefectus thesariorum ed i rationales garantivano la spietata riscossione dei tributi nelle province italiche secondo un sistema che, unito alle rovine della guerra, avrebbe portato all'esaurimento delle risorse e ad una crisi senza via d'uscita. In queste condizioni l'ordinamento romano si avviava al suo tragico epilogo e l'Italia, prostrata, disgregata e privata ormai anche della difesa del forte esercito goto, doveva ora piegarsi all'ennesima incursione barbara. E fu l'arrivo dei Longobardi, nel 568, a determinare una lacerazione storica e culturale profonda, con la quale ci pare si possa opportunamente far coincidere la fine dell'Età antica e l'inizio del Medioevo.

Il Medioevo e i Longobardi


Nel 568 un nuovo popolo germanico, muovendo dalla Pannonia, forzava la tenue difesa bizantina e conquista va parte dell'Italia entrando dalle Alpi orientali e scendendo rapidamente verso il Sud. I Longobardi, guidati da Alboino, stabilirono la loro capitale a Pavia e fondarono due importanti ducati a Spoleto e Benevento. La città campana, ribattezzata dai romani dopo la vittoria su Pirro, rappresentava il fronte più avanzato delle conquiste italiche dei longobardi e, sotto la guida di Zottone, si caratterizzò subito come ducato indipendente. Così, a meno di quindici anni dalla conclusione della "guerra gotica" la Lucania, ancora prostrata, si preparava a subire le mire espansionistiche di Zottone, un vero e proprio arrembaggio contro cui nulla poterono le deboli guarnigioni bizantine. Gli exercitales beneventani oltrepassarono l'Ofanto e in men che non si dica, con la loro proverbiale violenza, stabilirono presidi a Pescopagano, Ruvo, Vietri, Satriano, in val d'Agri e, convergendo verso nord, occuparono Venosa e strinsero l'assedio ad Acerenza che, stavolta, ben poca resistenza potè opporre al nuovo nemico. In questo modo i paesi lucani entrarono a far parte del Ducato di Benevento, agli ordini del riottosissimo Zottone che la storia tristemente ricorderà per la distruzione di Montecassino.
I Longobardi non riconoscevano nè temevano l'autorità dell'Impero d'Oriente; diversa la religione, diversi gli ordinamenti, unica autorità era quella del Duca, sorretto da un'assemblea in cui solo gli arimanni possedevano capacità giuridica, in una società che riconosceva il valore più alto all' uomo d'armi. Servi e schiavi, invece, appartenevano all'ultimo anello della catena sociale che non gli riconosceva alcun diritto. Alla confisca della terra i longobardi fecero seguire gli assalti ai beni delle chiese e delle comunità monastiche, alle quali si impose la presenza di sacerdoti ariani, decisione che provocò la fuga di gran parte dei religiosi. Cadute in disgrazia le strutture ecclesiastiche, che costituivano ormai un punto di riferimento privilegiato per le comunità locali, è facile immaginare la desolazione che avvolse in quegli anni il paese, perseguitato da una insanabile carestia e dalla peste. I Longobardi del resto pare non avessero grandi iniziative in agricoltura in quanto privilegiavano una cerealicoltura senza mezzi nè concimi, affidata esclusivamente al tradizionale riposo della terra. Si diffuse invece molto l'allevamento di equini, suini, bovini e ovini, come nel costume di un popolo avvezzo a cibarsi di molta carne e formaggi. 
Poche sono le testimonianze pervenuteci in merito all'esistenza di botteghe artigiane locali relative al VI-VII sec; molto interessante è una "forma" per il lavoro a foglia rinvenuta a Ruvo, che confermerebbe una certa vitalità artigiana in un'area di diretta influenza longobarda. Ma aldilà di queste brevi e frammentarie informazioni, possiamo dire che nel primo periodo di invasione longobarda, ovvero fino alla redazione dell'Editto di Rotari del 643, l'Italia rimase un paese "incapace di scrivere"; le tenebre calarono su quasi un secolo di storia, lacerando qualunque segno di continuità con il passato.
Alla morte di Zottone, avvenuta nel 592, la guida del Ducato di Benvento fu affidata al valoroso Arechi. Ma nonostante questa data coincidesse con la conversione al cattolicesimo del nuovo sovrano longobardo Agilulfo, al contrario, e forse per meglio sottolineare l'indipendenza del suo Ducato, Arechi non si convertì mai, anzi mantenne inalterara la priorità del culto ariano assumendo però una posizione di grande tolleranza nei confronti delle diverse entità religiose presenti in Lucania. Fu infatti neutrale nei confronti degli ebrei, che in gran numero e sin dall'antichità vivevano a Venosa ed in altre zone della regione e accolse, parte di quegli ebrei scampati all'imposizione del Battesimo promulgata da Eraclio nei territori dell'Impero d'Oriente. 
Del resto non fu mai proposito di Arechi quello di adottare la "chiesa-stato" quale strumento di potere, motivo che invece, di li a poco, avrebbe animato secoli di conflitti sul territorio italico, richiamando in causa tutti i malumori mai sopiti del rapporto fra Oriente ed Occidente, di cui nuovi sovrani si sarebbero fatti scudo per vincere le loro battaglie politiche e conquistare, insieme alla fiducia del Papa di Roma, l'Italia.
Con i Longobardi la Lucania scompare in quanto circoscrizione territoriale, in quanto al suo posto subentrano vari gastaldati: Venosa, Acerenza (che conta fra le sue contee anche Potenza), Latiniano (che comprende Marsico ed è esteso fino al Pollino), Lucania (il territorio a sud del Sele con al centro Paestum) e Laino (che comprende la valle del Mercure e quella del Lao). In posizione dominante verso la valle del Melandro viene eretta Satriano, sede vescovile dalla metà del IX secolo, mentre Tricarico, Montescaglioso e Montepeloso (in una posizione dominante fra le valli del Bradano e del Basento), assurgeranno al ruolo di città. I tre centri situati sulla Gravina furono unificati e cinti di mura con il nome di Mateola (Matera) e, sul Tirreno, vennero fortificate Malatei (Maratea) e l'isola di Dino.
Anche l'unità politica dei Longobardi fu presto minacciata da problemi religiosi e dai contrasti fra ariani e cattolici che si acuizzarono fortemente in seguito alla morte di Rotari, l'autore del celebre Editto che costituì il primo codice di legge longobarde. Approfittando delle diaspore interne ai longobardi, Costante II, Imperatore di Bisanzio cercò di tessere alleanze e di riconquistare i territori perduti in Italia, ma benché fosse riuscito a raggiungere il gastaldato di Acerenza, fu costretto ad abbandonare il campo poiché, come racconta Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum: "Argentia sane propter munitissimam loci positionem capere minime potuit".
A provocare l'ennesimo scompiglio, di lì a poco, sarebbe arrivato il provvedimento con cui l'Imperatore d'Oriente ordinava di distruggere le "sacre icone", motivo che determinò la definitiva insubordinazione di Papa Gregorio III nei confronti tanto del Basileus quanto del Patriarca di Costantinopoli. In nome della Sancta Respublica Romanorum, sancita nel Concilio del 731, l' "Occidente" espresse la sua decisa condanna nei confronti degli iconoclasti e sancì, quale unica autorità ecclesiastica e politica, quella del Papa di Roma.
Scampati alla furia iconoclasta, molti Basiliani ripararono in Italia e, in gran numero, risalendo la costa ionica, approdarono in Lucania lungo le valli dell'Agri e del Sinni. La loro influenza sulla ripresa dell'economia di vaste zone della regione, soprattutto fra il IX e l'XI secolo, sarà estremamente rilevante. I Basiliani si adoperarono molto in opere di bonifica e nel ripristino di attività agricole e di trasformazione di materie prime in prodotti alimentari, svolgendo inoltre una grande opera di divulgazione di fede tra un popolo fortemente provato da secoli di guerre, carestie e sacrilegi. 
Fra l'VIII ed il IX secolo anche le comunità cattoliche avevano cominciato a riorganizzarsi; nel 761 Senualdo era vescovo di Grumento mentre, pochi anni dopo, Leone saliva sulla Cattedra di Acerenza; nell'826 Balas era Vescovo di Potenza mentre Venosa dovette attendere fino a dopo l'anno mille per la nomina di Pietro.
I successori di Liutprando, il re longobardo che distolto dall'idea di conquistare Roma donò a papa Gregorio Magno i territori del Lazio che formarono il primo nucleo dello Stato della Chiesa, non mantennero gli stessi buoni rapporti con il Papa e tornarono a minacciarne l'autonomia. Stefano II, per difendersi, ricorse allora all'aiuto dei Franchi che stavano dominando la scena politica nel nord dell'Europa, aprendo un nuovo orizzonte di conflitti sul territorio italico. Prima Pipino e poi Carlo spensero definitivamente le mire espansionistiche dei Longobardi che, a partire dall'anno 774, videro la loro egemonia sulla penisola relegata al solo Ducato di Benevento. Arechi, in cambio del controllo sul Ducato, aveva promesso al re Carlo di disarmare le proprie fortezze, fra cui rientrava la roccaforte di Acerenza. Ma questo non avvenne, poiché Arechi impiantò sì i cantieri ma in funzione di un ampliamento e rafforzamento delle sue difese, ora minacciate da vicino dalle scorrerie dei saraceni, provenienti dalle coste meridionali e già arroccati ad Anglona, dopo aver sottratto la valle del Crati al controllo longobardo.
Mentre nella notte di Natale dell'anno 800, Leone III incoronava Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero, ricostituendo in un certo senso l'unità politica d'Occidente, dopo la morte di Arechi i Longobardi si disputavano selvaggiamente la successione. I pretendenti erano Sichenolfo e Radelchi che, pur di raggiungere l'obbiettivo, si allearono con i generali saraceni i quali, ovviamente, ben poco preoccupati delle discendenze longobarde, ne approfittarono per estendere i propri domini.
Apollafar, al servizio di Radelchi, si spinse nel Latiniano e poi nel metapontino dove costruì un campo fortificato sul colle ove sorgerà Tursi; successivamente, edificata la roccaforte sulle montagne di Pietrapertosa, i saraceni occuparono Tricarico ma non riuscirono ad espugnare Potenza. La disputa fra i due pretendenti, mentre l'egemonia musulmana era cresciuta a dismisura, si concludeva con la divisione dell'antico Ducato in due circoscrizioni, sotto la supervisione di Lotario, succeduto al trono del Sacro Romano Impero nell'843. 
Nel Principato di Salerno, riconosciuto a Sichenolfo, confluivano i gastaldati di Acerenza (per la media parte), di Latiniano, di Laos, di Lucania e di Conza, mentre solo la restante parte del gastaldato di Acerenza, la regione del Vulture, rimaneva nel Principato di Benevento. Ancora una volta divisa, nel corso del IX sec. la Lucania prestava il fianco agli assalti dei saraceni, in un contesto di grande miseria in cui le coltivazioni erano minacciate dai bruchi e dalle lacustre, e un maggio di frumento costava otto soldi, poco meno del prezzo pagato per uno schiavo.
I nuovi principi Longobardi non erano in grado di fronteggiare l'avanzata musulmana, ancorchè dissidi interni ne limitavano ulteriormente la capacità offensiva. I saraceni infatti riprendevano Taranto e poi proseguivano verso l'interno conquistando Matera e Tursi; da questo avamposto si spinsero fino a Venosa senza però riuscire ad espugnare Acerenza. Nonostante tutto, i ducati longobardi riuscirono a conservare, come nella tradizione, una loro immutata autonomia politica; e solo così si comprende come quando Ludovico II impose una norma discriminatoria nei confronti degli ebrei, nei territori di Salerno e Benevento questa non venne assolutamente applicata. Gli ebrei, infatti, continuarono a vivere liberamente a Venosa, a Lavello, a Gravina e a Matera, svolgendo le proprie attività commerciali, come si evince dalle iscrizioni funerarie della Collina della Maddalena a Venosa. 

Il tessuto sociale della regione era profondamente mutato e anche i due secoli di dominazione longobarda avevano contribuito ad influenzare una cultura forgiatasi nell'ambito delle costanti mediazioni tra l'Europa barbarica e le grandi civiltà del Mediterraneo. Questa caratteriale eterogeneità di usi e costumi avrebbe favorito, anche nella lunga stagione delle persecuzioni medioevali, un radicato spirito i tolleranza nei confronti dei popoli e delle religioni. Nell'ambito della cultura, fra gli esempi d'arte più interessanti relativi all'VIII sec., vi è il ciclo pittorico della Bibbia figurata ritrovato nella chiesa rupestre del Peccato Originale di Matera; per le soluzioni iconografiche adottate e la particolare impronta stilistica, il ciclo può essere avvicinato agli affreschi della chiesa di S. Sofia di Benevento, evidenziando i caratteri di una rinnovata e forte sensibilità artistica nell'area di influenza longobarda. 
Per fronteggiare l'avanzata saracena nel Sud giunse in Italia Ludovico II che, grazie all'alleanza con l'esercito bizantino, nell'inverno dell'871 sgominò la resistenza saracena di Bari. Ma proprio durante questa battaglia, pare, il Basileus Basilio I, chiarì a Ludovico II le ragioni politiche di quel conflitto, abbracciato solo per difendere i possedimenti nel Sud della penisola ai quali non avrebbe mai rinunciato, ritenendoli diretta continuazione dell'Impero d'Oriente, al di qua del Mediterraneo. 
Morto Ludovico i Bizantini riconquistarono la Puglia cercando di guadagnare posizioni nel Latiniano. Contemporaneamente, però, bande musulmane saccheggiavano la Calabria e, risalendo la penisola, nell'878 occupavano Agropoli, depredando Paestum e distruggendo fin nelle fondamenta Capaccio; la stessa sorte toccherà, in val d'Agri, a Grumentum che in questo assalto spietato conoscerà la sua definitiva eclissi. I sopravvissuti alla strage ed alla deportazione si rifugeranno sul colle dove ora sorge Grumento Nova, dando vita al paese di Saponara; ma, fra l'872, data della prima distruzione, e il 1031, anno di fondazione di Castelsaraceno, dalla diaspora degli abitanti di Grumentum si origineranno molti borghi fra cui la maggior parte dei paesi oggi esistenti in quell'area della val d'Agri: Moliterno, Sarconi, San Chirico, San Martino d'Agri, Spinoso, Montemurro, Viggiano, Tramutola, Armento, etc.
Fra l'880 e l'886, approfittando della richiesta di aiuti dei principi longobardi per fronteggiare l'avanzata musulmana, i bizantini riprendono il controllo dei territori della costa pugliese e del principato di Salerno e di Benevento su cui, da quel momento, i principi longobardi avrebbero esercitato una autorità puramente formale. I bizantini intanto costruivano torri e castelli sulle alture per controllare le posizioni degli arabi, ben assestati lungo i fiumi e la costa ionica, con un presidio fortificato nei pressi di Tursi.
I principi longobardi tentarono ancora, nel corso del X sec., di recuperare i territori perduti fino a che, dopo anni di battaglie fra sassoni, longobardi e bizantini, combattute scorrazzando e depredando il solito ed incolpevole Mezzogiorno, Giovanni I Zimisce, eletto al trono imperiale di Costantinopoli, pose pace ottemperando alle richieste di matrimonio fra la principessa Teofane e l'erede al trono d'Occidente, Ottone II.
In seguito a questo "accordo" il Principato di Capua e Benevento venne riconosciuto all'Imperatore d'Occidente, mentre la Lucania orientale, la Puglia, la Calabria e la sovranità sul Principato di Salerno rimanevano in saldo possesso del Basileus Giovanni I Zimisce. In tale nuova configurazione politica la Lucania non conservava più nulla dei confini e degli ordinamenti della circoscrizione augustea: i bizantini non suddivisero il territorio in province, bensì in Temi, cosicché il gastaldato di Latiniano, la contea di Potenza, l'alta e media valle del Bradano, il Vulture e la roccaforte di Acerenza, confluirono in uno dei tre Temi del Catepanato d'Italia, che comprendeva il Tema di Langobardia, il Tema di Calabria e quello di Lucania con capitale a Tursi, sottratta ai musulmani, in posizione dominante rispetto alla rotta preferita dalle incursioni arabe. Il Catepanato rappresentava una regione posta sotto il controllo di un "supremo uffiziale", il Catapano. Ma le divisioni amministrative bizantine furono complesse e differenziate in partizioni diverse, per ognuna delle quali vi erano reggenti e cariche che mutavano nel tempo, come Stratego, Catapano, Patrizio, Protoapatario, Turmarco, e molte altre. Proprio questa complessità, secondo il Racioppi, portò all'uso di Basilico, idioma popolare molto diffuso e noto nel X sec. anche a Costantinopoli, nel quale si sintettizzavano, in un certo senso, tutte le cariche "bizantine" degli ufficiali dello stato. 
A difesa dei confini orientali del Principato di Salerno, invece, il principe longobardo Gisulfo, fortificò il castello di Balvano, quello di Marsico e quello di Lauria, nei quali sostò Ottone II durante il repentino rientro seguito alla sconfitta di Capo Colonna inflittagli dai saraceni; ed è impossibile tentare per questi anni di fine millennio una descrizione storica che non sia punteggiata da guerre, saccheggi e violenze; nel 985 gli arabi, risalendo il Bradano colpivano duramente Venosa, depredando ogni cosa e trasportando in patria, lungo i fiumi, un numero infinito di schiavi. Singolare invece la vicenda di Pietrapertosa dove un certo Luca, approfittando dell'impopolarità del taurmarca del luogo, con l'aiuto dei saraceni e convertitosi all'islamismo, ottenne il comando del paese. Da questo momento e fino al 1001, il presidio arabo di Pietrapertosa, per la sua ottima posizione, costituì il caposaldo delle incursioni saracene dal Basento verso Tricarico, Tolve ed Acerenza. 
Sul percorso "infuocato" che dalla costa ionica raggiungeva Bari, in quegli stessi anni i bizantini fortificavano Matera, in una fase in cui l'egemonia nel Tema di Lucania era già forte e consolidata, lasciando intravedere anche i primi segni di una certa ripresa economica, in parte incentivata dall'opera dei benedettini e dei basiliani. Poche sono le notizie riguardanti le modalità della convivenza tra questi due ordini religiosi in epoca bizantina, ci è noto però che nel 968 la sede vescovile di Tursi, caput del Tema di Lucania, venne sottoposta alla giurisdizione del vescovo greco di Otranto, insieme a Matera, Acerenza e Tricarico e che, altresì, quale avamposto della chiesa di Roma venne scelta la diocesi di Montepeloso. 
Nella parte nord occidentale della regione, sottoposta alla giurisdizione longobarda, prevaleva invece il rito latino, come dimostrano gli antichi monasteri benedettini di Monticchio, Banzi e il vescovato di Potenza. Le comunità monastiche si insediarono prevalentemente in località ricche di acqua e di boschi, perlopiù poste sui massicci montuosi al riparo dalle incursioni saracene. E con l'infittirsi della presenza di fedeli presso le comunità monastiche, cresceva l'esigenza di terreni coltivabili, ricavati tramite la deforestazione che garantiva anche una certa ricchezza grazie al commercio del legname. 
Tra il X e l'XI sec. le aree coltivate si estesero e si diffusero la monocoltura cerealicola, la vite e l'olivo. Fra il X e l'XI secolo, sui fianchi della Gravina di Matera, di quella di Picciano e sui terrazzamenti creati dai depositi alluvionali del fiume Bradano, sorsero diversi nuclei di chiese rupestri. In questi luoghi di preghiera scavati nella roccia si ritiravano in silenzio i Padri basiliani, ispirati ad una regola religiosa pacifica e non violenta.
Al volgere dell'anno mille la realtà etnica e politica del Mezzogiorno era estremamente frammentata; tanta la confusione sul piano delle forme istituzionali, sociali e materiali, alimentata dalle lunghe contese che avevano impegnato longobardi e bizantini, in una fase in cui gran parte degli equilibri politici del continente si giocavano sul territorio italico. La stessa chiesa cattolica d'Occidente viveva un momento difficile, tormentata dalle pressioni del mondo feudale, dal potere dei vescovi, dalle angosce dell'anno Mille e dalla difficoltà di riallacciare un contatto con i fedeli, soprattutto nell'area bizantina. E come se non bastasse, anche i "movimenti" della terra aggiungevano altra tensione e paura; nel 990 un violento terremoto (IX-X grado della scala MCS), con epicentro in Irpinia, colpì duramente la Lucania, tanto che Matera, pur così lontana dall'epicentro, subì numerosi danni.
In questa difficile e tormentata fase congiunturale, il Mezzogiorno rappresenta il nodo cruciale delle tensioni politiche europee, "scotta" e tutti vogliono possederlo ad ogni costo, e lo dimostrano i continui complotti tesi, fra la Casa regnante, la Chiesa e i Principi longobardi, nel tentativo di destituire l'autorità bizantina. Non appena scoccato l'anno Mille, infatti, una violenta rappresaglia longobarda metteva in allarme il presidio bizantino di Canne; la battaglia, combattuta nell'ottobre del 1018, fu vinta dalle forze del Catapano ma, in quell'esercito in ritirata, facevano la loro prima comparsa i cavalieri normanni.

I Normanni


Chi erano e da dove venivano questi "vagabondi" come amava definirli Guglielmo di Puglia nelle sue Gesta, uomini che "erravano di qua e di là, cambiando senza posa dimora"? . I nuovi guerrieri provenivano dal Ducato di Normandia dove nel 911 si erano insediati come vassalli del re di Francia; avevano incominciato a frequentare il Mezzogiorno di ritorno dai pellegrinaggi in Terra Santa, quando solevano fermarsi al Santuario di S. Michele sul Gargano. Pare che proprio dopo la sconfitta di Canne parte dei normanni superstiti decisero di stabilirsi al Sud, richiamando al seguito le proprie famiglie. In una situazione in cui erano tanti i fronti su cui battersi, i normanni non tardarono ad inserirsi adeguatamente nel gioco politico dei principi italiani e, quando i tumulti antibizantini incendiarono Bari, nel 1038 e nel 1040, provocando rivolte in tutto il Catepanato, essi si schierarono al fianco dei rivoltosi. Approfittando della scarsa resistenza imperiale, poiché gran parte delle truppe erano impegnate in Sicilia contro i saraceni, il contingente normanno guidato da Arduino, con l'appoggio e forse la cieca complicità delle forze locali, si impadroniva di Lavello, Ascoli Satriano e Melfi. Sospinti dall'appoggio incondizionato dei principi longobardi di Salerno e Benevento, che continuavano a considerarli alla stregua di abili soldati di ventura, i normanni si insediarono a Melfi, "la ricca città che li fece grandi". A questo punto i normanni cominciavano a gestire la loro forza ed il loro impegno militare con una nuova mentalità strategica e politica e, grazie ai territori della contea di Aversa e del ducato di Melfi, riconosciutigli dal Principe di Salerno, essi acquisivano una posizione autonoma di dominio nel Mezzogiorno. Guglielmo Braccio di Ferro, primogenito degli Altavilla, fu eletto capo a Melfi e la città, divisa fra i dodici conti, diveniva la capitale del nuovo stato e per questo rafforzata con un castello e cinta di mura. Da questo momento l'egemonia normanna cominciò a crescere parallelamente al declino delle aristocrazie longobarde e bizantine. Nel gennaio del 1043 Guaimario, principe longobardo di Salerno, velleitariamente e con autonoma designazione, appoggiato dai conti normanni, assumeva il titolo di dux apuliae e calabrie, tentando l'ennesimo vano sforzo unitario nel Mezzogiorno. A frenare le mire egemoniche di Guaimario, in un panorama di crescente degradazione sociale e politica, repentinamente giunse d'Oltralpe Enrico III che, restituito il Principato di Capua a Pandolfo IV, confermava i possedimenti normanni a Drogone d'Altavilla, erede del fratello Guglielmo, conferendogli testè l'investitura al pari dei principi longobardi. Da questo momento, sulla scorta dell'immunità imperiale, la spinta conquistatrice dei normanni diventò "legittima" ed irrefrenabile.
Roberto il Guiscardo, il più giovane degli Altavilla, si impossessò di importanti presidi, spingendosi fino alla valle del Crati, dopo che Drogone gli aveva aperto la strada attraverso Tricarico. Le conquiste normanne cominciavano a turbare il Papa, che avvertiva nei modi di questi guerrieri una preoccupante irriverenza nei confronti dell'autorità dei vescovi e dei possedimenti della Chiesa. Leone IX si diresse allora in Germania dove Enrico III, informato delle violazioni normanne promise la restaurazione dell'autorità della chiesa. Ma ciononostante, il 18 giugno del 1053, il Papa perdeva la sua guerra sul campo, poiché i normanni, guidati da Umfredo d'Altavilla, Roberto il Guiscardo e Riccardo Quarel, sgominarono la resistenza germanica e quella dell'esercito pontificio, duramente battuto ed umiliato. Negli anni a venire i rapporti fra la Santa Sede ed i normanni non saranno mai troppo tranquilli e questi, più volte scomunicati, riusciranno però sempre a riconquistare le grazie pontifice. E proprio per la necessità di una costante verifica dei rapporti fra le due parti, furono convocati numerosi Concilii nella capitale normanna di Melfi, dove ormai risiedeva il fulcro delle attività politiche ed amministrative. Il primo venne promulgato da Niccolò II fra il 3 e il 25 agosto del 1059 con lo scopo ufficiale di riaffermare l'osservanza del celibato in un'area in cui i preti facilmente prendevano moglie. In realtà però questo Concilio arrivava dopo lo scisma del 1054, in una situazione i cui i rapporti fra le "due Chiese" erano molto tesi e bisognosi di chiarimenti. La necessità di una protezione interna era per il Papa divenuta una emergenza tanto che la riconciliazione con i normanni avvenne proprio in quella sede; Roberto d'Altavilla, riconosciuto "Dei Gratia et Sancti Petri dux Apuliae Calabrie et utroque subveniente futurus Siciliae", giurò dunque fedeltà al Pontefice, garantendogli salvaguardia e protezione. I conti normanni, per la prima volta, si riconoscevano vassalli del proprio duca Roberto d'Altavilla.
Nel gennaio del 1072 l'egemonia normanna si era estesa fino alla Sicilia e nulla aveva potuto la reazione bizantina contro l'astuzia e l'abilità di Roberto d'Altavilla, proprio per questo detto il Guiscardo. Ma Gregorio VII non vedeva di buon occhio l'avanzata dei normanni, e quando questi conquistarono anche Capua, lanciò la scomunica contro gli Altavilla che, per tutta risposta, nel dicembre del 1076, presero Salerno.

Le trame ordite da Gragorio VII e dai conti infedeli cercavano invano di incitare alla rivolta le popolazioni locali, stremate da anni di conflitti, spesso incomprensibili, e dalla peste che, in particolare, aveva colpito la bassa valle del Bradano e Matera. Dopo aver domato l'ennesima congiura interna il Guiscardo conferma al nipote Roberto, conte di Montescaglioso, la contea di Matera, ma gli sottrae Santarcangelo, Roccanova, Castronuovo, Colobraro e Policoro, che assegna al duca di Andria già possessore di Banzi.
Il 31 maggio del 1081 Gregorio VII dovendo fronteggiare l'elezione dell'antipapa ritira la scomunica e riconosce la signoria degli Altavilla su Salerno e Amalfi, in cambio di fedeltà e protezione. Ad Acerenza intanto il vescovo Arnoldo dava inizio alla costruzione della nuova basilica e, mentre il duca Roberto, soprattutto in tempi di scomunica, concedeva beni e privilegi ai vescovi della sua zona, il conte di Chiaromonte faceva donazioni alla comunità monastica di rito greco di Carbone, sulla quale esercitava giurisdizione il vescovo di Tursi, di rito latino. La situazione religiosa era ancora molto confusa.
Il 17 luglio del 1085, a Cefalonia, un'epidemia malarica stroncava la vita di Roberto il Guiscardo che si era recato in Terra Santa. Ruggiero, figlio in seconde nozze di Roberto con Sicelgaita, venne riconosciuto Duca di Puglia, elezioni alle quali si oppose Boemondo, nato dal primo matrimonio con la ripudiata Alberada; dopo anni di lotte interne, nel 1089, i due si accordarono con la spartizione dei territori cosicché a Boemondo venne affidato un grande feudo che comprendeva, fra gli altri, Taranto, Matera, Montepeloso e Torre di Mare o Santa Trinità (l'antica Metaponto). Nel settembre del 1089 Urbano II convocava un nuovo Concilio a Melfi nel quale i baroni furono indotti a firmare la "tregua di Dio" per assicurare un pò di pace alle popolazioni locali stremate dalle guerre. Sei anni più tardi lo stesso Papa, nel Concilio di Clermont, bandiva la crociata in Terra Santa. Una moltitudine di fedeli partì allora, dalle coste pugliesi, per liberare il sepolocro di Cristo dalle mani dei turchi; salparono in settemila, secondo le cronache del tempo, e fra questi vi erano Boemondo d'Altavilla e quel Tancredi che, cantato dal Tasso nella Gerusalemme Liberata, pare fosse figlio di Ottobono Marchisio, signore di S. Chirico Raparo.
Nel 1111 morirono sia il duca di Puglia Roberto che il fratello Boemondo cosicché, dopo la breve reggenza di Guglielmo, il duca di Sicilia Ruggiero veniva acclamato duca di Puglia. Ma nel fare domanda di legittimazione al pontefice questi non solo gliela negò ma, per presunte irregolarità commesse contro alcuni vescovi siciliani, lo scomunicò. La storia si ripeteva. Onorio II "a capo delle milizie raccozzate dei baroni a sè aderenti" si faceva incontro a Ruggiero verso il Bradano; questi, astutamente e per quaranta giorni, attese sulla sponda sinistra del fiume, un tempo infinito in cui, come previsto, si sgretolò l'esercito "raccozzato" del Papa che dovette infine trattare e riconoscrere a Ruggiero la legittimità del ducato di Puglia e Calabria in cambio della sua fedele protezione.
La difesa dei normanni era affidata ad un forte e numeroso esercito composto di vassalli armati e saraceni, i quali dimoravano ormai stabilmente nei territori del Regno; Castelsaraceno, del resto, era sorta già nel 1031. Le vicende dell'investitura di Ruggiero si intrecciarono con l'ennesimo scisma, la duplice elezione al soglio pontificio di Anacleto ed Innocenzo. Anacleto, l'antipapa, in cambio dell'appoggio normanno, nel dicembre del 1130 coronò Ruggiero sovrano di Sicilia, di Puglia e di Calabria. Questa mossa scatenò le ire di papa Innocenzo che nel 1137, accompagnato da Lotario III, varcò le Alpi dirigendosi verso il Sud. Sopraggiunti in Melfi, il papa e l'imperatore delegittimarono Ruggiero in favore di Rainulfo, ed a Lagopesole, dove ancora non vi era che un casale, Innocenzo concesse il perdono ai benedettini che avevano appoggiato l'antipapa. La fortuna però era dalla parte dell'impavido Ruggiero poiché "al novello anno, morto l'antipapa, morto l'imperatore al passaggio delle Alpi, morto Rainolfo il pretendente", sorpreso e fatto prigioniero Innocenzo II, otteneva in cambio la legittima corona di re di Puglia, Calabria e Sicilia. Il fulcro delle attività normanne si spostava così a Palermo e gli Altavilla potevano dirsi padroni del Mezzogiorno d'Italia.
Nella sua lunga reggenza Ruggiero ebbe il merito di dare un ordinamento ed una legislazione unitaria al Regno, opera poi completata da Guglielmo I con il Catalogus Baronum; egli prima trasformò i vecchi feudi in Camerariati e Giustizierati -nasceva così il Giustizierato di Basilicata- e successivamente istituì appositi registri (quaterni fiscales) per definire adeguatamente i confini dei feudi. In questo periodo se l'area del Vulture manteneva buoni rapporti economici e commerciali con la Puglia, nel resto del Giustizierato prevaleva una economia sostanzialmente chiusa, nonostante i nuovi contratti di locazione delle terre, introdotti da Ruggiero, consentissero una certa rivitalizzazione del settore agricolo. Ma la crisi che fomentava era causata dalla resistenza alle rigide regolamentazioni normanne opposta dall'aristocrazia feudale, sempre più subalterna sul piano politico e amministrativo. Le vicende delle successioni al trono, seguite alla morte di Ruggiero II, non toccarono da vicino i paesi e le terre di Basilicata poiché il cuore della politica normanna si era ormai spostato a Palermo, dove risiedevano anche gran parte dei conti. Melfi, Venosa, Potenza e Matera, nonostante città demaniali, non vivevano quel fermento che animava soprattutto al Nord le società dei Comuni, una emancipazione non facile sia per la politica poco incline alle autonomie locali praticata dai normanni e sia perché le città lucane erano tagliate fuori dei grandi scambi economici e commerciali. In fermento invece si presentava la situazione delle comunità monastiche che ebbero un discreto incremento soprattutto grazie all'opera dei benedettini. Particolare rilievo assunse la comunità di San Michele Arcangelo di Monticchio, mentre decadeva progressivamente la badia di Venosa e la chiesa della Trinità, lasciata incompiuta dagli Altavilla che dopo la morte del Guiscardo preferirono il sepolcro del duomo di Palermo. Fra il XII e il XIII sec. svolse un grande ruolo la diocesi di Marsico guidata dal vescovo Giovanni, benedettino di Cava, che si operò molto per la diffusione delle comunità e delle donazioni; in tale contesto terre e privilegi continuvano ad esser deputati alle Chiese ed alle comunità monastiche soggette all'archimandrita del monastero di Sant'Elia e di Sant'Anastasio di Carbone, fino a quando, nel 1174 un incendio devastò il vecchio monastero e i monaci che riuscirono a salvare dalle fiamme gran parte della biblioteca, ripararono sul monte Chiaro dove, presso la chiesa di S. Caterina, riedificarono il monastero. Sul finire del XII secolo grazie al matrimonio fra Costanza d' Altavilla, l'ultima figlia di Ruggero II, e l'erede al trono di Roma, Enrico di Svevia (figlio di Federico I Barbarossa), celebrato il 25 dicembre del 1194 malgrado le resistenze della Chiesa, il Sacro Romano Impero e il Regno dei normanni si univano sotto la stessa corona. Ma la morte prematura di Enrico IV di Svevia infuocò gli animi dei pretendenti che provarono in tutti i modi a delegittimare l'erede al trono, ancora minorenne e sotto la tutela di Costanza. Ottone di Brunswick, nonostante la scomunica di papa Innocenzo III, rivendicava i diritti sul Regno al punto da scendere in armi nel Mezzogiorno, fra il 1210 e il 1211, dove gran parte delle città e dei vescovi si schierarono dalla sua parte.
Nessuno in Germania voleva riconoscere i diritti del giovane Federico, ma la sorte era dalla sua parte: Filippo di Svevia, fratello di Enrico IV, moriva assassinato il 21 giugno del 1208, mentre Ottone di Brunswick veniva messo fuorigioco dalla scomunica emanata da Innocenzo III, custode di Federico dopo la morte di Costanza. Nel frattempo, per rispettare il volere del papa che poi rispecchiava le ultime volontà di Costanza d'Altavilla, il giovane Federico rinunciava alla corona di Sicilia in favore del figlio Enrico, affinché non si compisse mai l'assimilazione del Regno di Sicilia all'Impero. Così fatto, nell'autunno del 1220 Federico potè finalmente entrare in Italia per essere incoronato Imperatore da Onorio III, confermando fedeltà alla chiesa e promessa di crociata in Terra Santa.

Federico II di Svevia


"Di pelo alquanto rosso e di volto allegro" Federico II, in seguito alla Dieta di Capua del 1221, si diresse a Salerno e poi in Puglia da dove raggiunse la costa ionica. É questa l'occasione in cui il nuovo sovrano stabilisce i primi contatti con la Basilicata ed in particolare con i paesi della contea di Montescaglioso e della diocesi di Anglona. Tra la foce del Bradano e del Sinni, Federico II fu particolarmente colpito dalla fertilità dei suoli e dall'estrazione di pece e catrame fatta sui tronchi di pino, trasportati al mare dalle correnti fluviali; e fu grazie al suo intervento che il porto di Eraclea tornò a rivivere dopo anni di abbandono.Nella regione del Vulture Federico II si fermò per la prima volta nel 1225 quando a Melfi decise di convocare la Dieta per il reperimento dei fondi straordinari da destinare all'allestimento dell'armata da inviare in Terra Santa. Oltre a trovarsi al centro del Regno Melfi offriva una serie di vantaggi grazie ai recenti interventi del vescovo Richiero che aveva fatto costruire il ponte sull'Ofanto, per facilitare l'accesso al paese, un ospedale ed un ricovero per i viandanti. Il ritardo della crociata, promessa da Federico II ai tempi dell'investitura, accentuò i dissensi con il papato, che mai si sarebbero placati sino alla morte del sovrano. Lo svevo del resto, per quanto avesse giurato fedeltà alla Chiesa, mal tollerava le ingerenze del papa nelle questioni del Regno, nonostante provvedesse ad intrattenere buoni rapporti con i vescovi che, in un certo senso, costituivano la base solida del suo consenso; questo avveniva soprattutto in Basilicata e nella diocesi di Melfi, dove Richiero era divenuto consigliere negli affari del re. Federico inoltre era piuttosto tollerante nei confronti degli ebrei, contro i quali invece la chiesa aveva già canonizzato la sua discriminazione (IV concilio lateranense); ma gli ebrei, come abbiamo avuto modo di ricordare, vivevano in gran numero nel Regno ed esercitavano attività commerciali e produttive di rilievo, gestendo una cospicua fetta di denaro liquido, motivo non certo secondario nella scelta antipersecutoria di Federico II, che sovente, non potendo ulteriormente caricare di tasse i sudditi già fin troppo vessati, doveva ricorrere a prestiti esterni per la sua dispendiosa reggenza. Fra i provvedimenti che più d'altri fecero innervosire il papato, vi era quello con cui Federico II frenava le donazioni a chiese e comunità monastiche per evitare l'accrescimento della manomorta. Nel settembre del 1229, papa Gregorio IX che ormai proprio mal tollerava la politica dell'imperatore svevo, adducendo quale motivazione l'ennesimo ritardo alla partenza della crociata, pure arrestatasi per una violenta epidemia di peste, scomunicò Federico. A questo provvedimento seguirono violenti tumulti e sollevazioni che le forze sveve sedarono con violenza "esemplare", distruggendo fra gli altri il casale di Gaudiano. Ristabilito l'ordine pubblico Federico ritenne giunto il momento di partire per la Terra Santa e il 18 marzo del 1229, in seguito ad un insperato accordo con il sultano, che gli concedeva profitti in Terra Santa per dieci anni, entrava vittorioso in Gerusalemme e per Gregorio IX, che sperava così di annientare lo svevo, fu uno scacco insopportabile. "La fatale contesa tra le due potestà, causa prima di tutti i nostri guai" -commentava Giustino Fortunato- si riaccendeva con tanta violenza "da far impallidire le antiche memorie". 
Diffondendo la voce della morte del sovrano il Papa marciava verso i territori del Regno; ma Federico, rientrato rapidamente da Gerusalemme, nel giugno del 1229, costrinse il pontefice a trattare la pace e sei mesi più tardi, Gregorio IX, prosciolse il sovrano dalla scomunica. Intanto, la situazione delle campagne era disastrosa, colpite sin dal 1227 da una profonda carestia frumenti seguita ad una terribile invasione di bruchi che aveva distrutto gran parte del raccolto cerealicolo della zona del Vulture. 
Nel maggio del 1231 Federico ritornava in Basilicata insieme a Pier della Vigna, suo collaboratore strettissimo, e all'arcivescovo di Capua, ai quali era stato affidato il compito di raccogliere, in un unico corpo legislativo, le disposizioni emanate a Capua, a Messina, a Melfi, a Siracusa e a S. Germano a partire dal 1220. Concluso questo lavoro, nell'agosto del 1231 innanzi alla solenne Dieta di Melfi, veniva promulgata la Constitutiones regni Siciliae, correntemente chiamata Augustales o Melfienses, strumento legislativo di primaria importanza nel panorama dell'Europa Medioevale. Il codice delle costituzioni, secondo gli intendimenti del sovrano, venne tradotto anche in greco, certificando una presenza consistente nel Regno di popolazione di lingua greca durante il medioevo. Alla base dell'emanazione del codice, che pure affondava le sue radici sia nella concezione augustea dello stato che nelle scelte della legislazione normanna, vi era senz'altro la convinzione di Federico II del pericolo che poteva derivare dall'autonomia di eventuali statuti municipali. Questo orientamento costituì l'ostacolo maggiore ad un profondo sviluppo del Mezzogiorno poiché non favorì il formarsi di una vera borghesia nel settore del commercio determinando, al contrario, quella persistente debolezza della classe mercantile ed imprenditoriale del Sud, impossibilitata a sostenere il confronto con i mercanti pisani, genovesi o veneziani.
La politica di Federico era del resto prevalentemente orientata ad un miglioramento dell'agricoltura, prevedendo contratti di locazione agevolati per i suoli demaniali incolti e un controllo maggiore, tramite inventario, delle terre, delle massarie e delle foreste regie. Egli affidò l'amministrazione a magistri massararium e ordinò la ristrutturazione delle antiche massarie curiae prescrivendo norme rigorose per l'allevamento di bovini, ovini e suini e per un adeguato sfruttamento delle risorse dei campi.
Nonostante non risiedesse a lungo in Basilicata Federico II operò una generale ristrutturazione delle fortificazioni; circa trenta, secondo l'elencazione degli statuta officiorum, erano i fortilizi nel territorio regionale quando Federico ordinò la costruzione del castello di Lagopesole (1242), la ristrutturazione della domus di Palazzo S. Gervasio e la costruzione del portale della basilica della Trinità di Venosa; inoltre, nel giugno del 1241, il sovrano stabilì che si disponesse a Melfi il centro di raccolta della tesoreria imperiale e la fondazione di una delle tre Scholae ratiocinii del Regno di Sicilia.
I rapporti fra Federico e la Santa Sede erano sempre più tesi ma i vescovi lucani riconoscevano il primato dell'Imperatore ed erano poco coinvolti nelle predicazioni degli ordini mendicanti, francescani e domenicani, che pronunciavano invettive contro il sovrano svevo; e forse proprio per rafforzare la sua posizione nei confronti del Papa, Federico donò ampi possedimenti, nel territorio di Melfi, ai Cavalieri Teutonici suoi sostenitori; nello stesso tempo proseguivano i lavori sia a Rapolla, per la costruzione della chiesa, che a Potenza per l'edificazione della cappella del duomo, in cui dovevan trovare posto onorevole le ossa di Gerardo di Piacenza, santificato nel 1120. Nell'estate del 1243 Federico ritornò nel Vulture per accogliere gli ambasciatori di pace inviatigli da Innocenzo IV, ma le condizioni imposte dal pontefice erano inaccettabili cosicché, due anni dopo il Concilio di Lione dichiarava decaduto Federico II, posizione che raccoglieva i consensi dell'alta burocrazia corrotta dall'offerta di feudi. Nel 1246 i tumulti e le defezioni seguiti a questa decisione sarebbero stati soffocati col sangue; nel Regno, violenta fu la vendetta degli Svevi che distrussero il castello di Capaccio e costrinsero, quando ebbero salva la vita, le potenti famiglie locali alla fuga e fra queste i Sanseverino, conti di Marsico e di Chiaromonte. Severo con i traditori, contro cui era capace di qualunque crudeltà, Federico pare applicasse sovente anche il rogo, sub hereticorum pretextu, per punire i suoi malcapitati oppositori. Fra il 1249 e il 1250 il Re tornerà più volte nel Vulture ma il suo aspetto non sarà più quello "solatiosus, jocundus, delitiosus " degli anni precedenti; sconfitte, defezioni e forse rimorsi, riferiscono i testimoni dell'epoca, ne avevano incrinato la stella quando, nella notte fra il 13 e il 14 dicembre del 1250, di ritorno da una battuta di caccia, ordinando di essere avvolto in un saio grigio, Federico II si spense alla presenza del figlio Manfredi e di Bianca Lancia, in Castelfiorentino presso Foggia. La volontà di Federico II che in punto di morte coperto del saio cistercense, ordinava il perdono dei prigionieri e la restituzione dei beni sottratti alla chiesa, esprimeva il desiderio del sovrano di morire in pace come imperatore romano cristiano. Al severo estremo contegno di Federico II, papa Innocenzo IV corrispose esultanti parole, partecipando così la notizia ai fedeli: "I cieli possono allietarsi e la terra può esultare perché l'impeto della tremenda procella con la quale l'Onnipotente ci ha finora afflitti, è passato". La morte di Federico II di Svevia, malgrado l'enfasi liberatoria del Papa, avrebbe coinciso invece con l'inizio di uno dei periodi più tragici della storia del Mezzogiorno. Se a Melfi Federico aveva istituito la corte con gli uffici imperiali, a Venosa la residenza domestica e a Lagopesole la dimora del riposo e della caccia, con la caduta degli svevi sarà proprio il Vulture a risentire subitaneamente degli influssi di una destrutturazione devastante. Affidate Acerenza e S. Fele al controllo di Giovanni Moro, Tolve e Rapolla al presidio di Galvano Lancia, con i saraceni acquartierati a Lucera e i Cavalieri Teutonici a Torre Alemanna, Federico II era riuscito per la prima volta a garantire un sistema difensivo di grande sicurezza per la regione.
Ma il pericolo e le prime avvisaglie di una cospirazione "guelfa" venivano dal sud della Basilicata dove i Sanseverino, al confine con i loro possedimenti calabri di Bisignano, fomentavano con il Papa la caduta della dinastia sveva.
La successione al trono di Federico II si concluse con un grande spargimento di sangue cominciato con la defezione di Giovanni Moro, punita con la morte da Galvano Lancia, costretto poi a bruciare Rapolla che gli si era sollevata contro, finita con le centinaia di vittime di parte ghibellina trucidate per ordine di Ruggero Sanseverino, fra queste i conti Pietro e Guglielmo di Potenza, il giureconsulto Pietro di Campomaggiore, Enrico di Pietrapalomba e tanti altri. Così si compiva la penetrazione papale e angioina, contro cui nulla aveva potuto la sfortunata discesa di Corradino di Svevia finita tragicamente a Tagliacozzo nel 1268. Gli Angioini avevano vinto e re Carlo, che pure si fermò brevemente a Melfi nell'autunno del 1269, spostò a Napoli il centro del suo potere, sottraendo così alla città del Vulture le rilevanti funzioni politiche ed amministrative.

Angioini e Aragonesi


Le ripercussioni dei conflitti si fecero sentire, sul piano economico, spianando la strada ad una forte crisi rinforzata dal prolungarsi di una fase climatica molto fredda che colpì fra il XIII e il XIV sec. l'intera Europa. Le esondazioni dei fiumi e il dilavamento degli argini, dovute alle grandi piogge, si fecero particolarmente insistenti sui corsi del Bradano e del Basento, che subirono uno spostamento deciso verso Sud. A tutto ciò si aggiunga il terribile terremoto del 1273, che provocò danni e vittime innumerevoli, e si comprende come la situazione della Basilicata doveva presentarsi disastrosa agli occhi della nuova classe dirigente instaurata da Carlo d'Angiò: Colin de Chanson (feudo di Pietrapalomba), Gèrard d'Yvort conte di Montemilone, Balduino di Carpigny (Forenza), Ottone di Toucy, etc, etc. Molti centri abitati furono irreversibilmente abbandonati dando inizio a quella flessione demografica che si sarebbe arrestata solo due secoli dopo; nel 1330 i nuclei familiari (i cosiddetti fuochi) che nel 1277 ascendevano a 17.000, erano solo 14.500, rivelando una diminuizione di popolazione pari a circa 13.000 unità, che interessò particolarmente l'area del Vulture e quella della costa ionica. Proprio in questa fase di crisi economica e sociale emersero le nuove caste di proprietari terrieri, che si impadronirono di territori sconfinati consolidando i primi confini di quei grandi feudi che avrebbero caratterizzato per secoli ancora la storia del paesaggio agrario della Basilicata. Il tributo maggiore in questo senso fu quello riconosciuto ai Sanseverino che, per la rimarchevole attività svolta nella lotta contro gli Svevi, divennero padroni di gran parte della regione; ben oltre il territorio di Chiaromonte il loro dominio si estendeva dalla valle dell'Agri e del Sinni alla val Basento fino a Tricarico e, dal Pollino, fino a Lagonegro. Altra famiglia che trasse enormi vantaggi dalla legittimazione Angioina fu quella degli Orsini del Balzo, di origine francese (De Baux) che estesero il loro dominio dalla Puglia verso l'area del Vulture, proprio quella più cara a Federico II, acquisendo Acerenza, Genzano, Irsina e Venosa - dove costruirono il loro castello- arrivando anche a possedere a tratti Montescaglioso, Pomarico e Matera. Queste erano le prime e più potenti dinastie feudali della Basilicata. Ma chi altrettanto si avvantaggiò della sconfitta degli Svevi fu la Chiesa dal momento che proprio durante il XIV secolo si riscontra un notevole rafforzamento dell'organizzazione ecclesiastica mediata dai vescovi e dal rilancio delle grandi abbazie. Buona parte del lavoro in questa direzione venne svolto dagli ordini mendicanti, soprattutto dai francescani che rilevarono gran parte delle abbazie in disgrazia, prime fra tutte quelle di Banzi e Monticchio, in coincidenza della irreversibile decadenza della presenza benedettina e basiliana. A Potenza i francescani edificarono la chiesa di S. Michele nel 1274, subito dopo il terremoto, e da qui estesero la propria attività in quasi tutti i centri abitati della regione; il luogo più prestigioso della presenza francescana fu il monastero di S. Maria di Orsoleo, costruito tra S. Arcangelo e Roccanova in un luogo in cui pare preesistesse un culto legato all'eresia dei Fraticelli, in nome del quale, a riparazione di quell'eresia, venne edificato il convento francescano. Fra le campagne spopolate ed incolte, fece presto ad imporsi la grande pastorizia intorno alla quale si sviluppò l'economia delle grancie ecclesiastiche e delle difese regie o baronali. 
Principali difese regie divennero in epoca angioina quelle di Palazzo S. Gervasio Lagopesole, impegnate a rifornire di cavalli, carne salata, selvaggina e vino rosso la corte del Re. Lagopesole conservò la sua natura di residenza di caccia (daini, cervi, caprioli, volpi e orsi), arricchita di nuovi mulini e forni.
Uno dei fattori che certamente influì sulla profonda crisi demografica del XIV secolo, fu la cacciata dei saraceni ordinata da Carlo d'Angiò, di concerto con il Papa che provocò in Basilicata la dispersione di tutte le comunità arabe residenti a Castelsaraceno, Bella, Pescopagano, Tursi e Tricarico, dove tutt'oggi è possibile vedere le rabatane di saracena memoria. Stessa sorte, conoscendo la diffusione dello stereotipo antisemita in quell'epoca in Francia, dovette toccare agli ebrei, così numerosi a Matera e nell'area del Vulture, dalla cui diaspora si pensa sia nato il paese di Avigliano; alla nuova Curia reale andavano anche i beni e tutte le sostanze sottratte agli ebrei e agli eretici imprigionati o riparati altrove. 
In questa sorta di "pulizia etnica" rientrarono anche le comunità monastiche di rito greco, strette nella morsa dell' alleanza papale con i Sanseverino i quali controllavano tutta quella parte meridionale della regione dove maggiore era la concentrazione dei basiliani. Ampi feudi furono dati invece in consegna all'ordine dei Cavalieri di Malta che, in cambio delle gravi perdite subite in Terra Santa, ricevettero i possedimenti della SS. Trinità di Venosa ed altri feudi rustici in agro di Matera (Picciano) e di Grassano.
Anche le Clarisse istituirono i loro conventi, a Tricarico (1322), Matera, Montescaglioso, Genzano e Ferrandina.
Nel clima di rinnovata religiosità si inserivano anche i domenicani che trovarono nei Sanseverino i più vivaci sostenitori poiché Ruggero aveva preso in moglie proprio la sorella di San Tommaso d'Aquino, Teodora.
Al volgere del XIV secolo la Basilicata fu coinvolta nelle sanguinose lotte per la successione al trono fra Luigi d'Ungheria e Carlo Durazzo; a Nord, in particolare nel Vulture, la regione fu saccheggiata dagli ungheresi mentre la regina Giovanna I ed il marito, Ottone di Brunswick, venivano segregati rispettivamente nel castello di Muro Lucano e nella rocca di S. Fele. Nell'ambito di queste lotte, nel 1404 venne quasi completamente sterminata la casata dei Sanseverino che Re Ladislao di Durazzo fece impietosamente gettare in pasto ai cani nel Castelnuovo di Napoli. In Basilicata, solo Saponara riuscì ad opporre resistenza al dilagare delle forze reali e, seppure nel 1405 dovette cedere, riuscì ad ottenere da Ladislao una "capitolazione onorevole" che gli consentì una certa indipendenza. In questi primi anni del secolo apparvero anche le bande dei Capitani di ventura, a cui lo stesso Ladislao sovente ricorreva per ristabilire l'ordine; e proprio in cambio dei servizi resi alla causa del Re il capitano Muzio Attendolo Sforza ottenne i prestigiosi possedimenti che furono dei Sanseverino: Tricarico, Calciano, Senise, Chiaromonte, Salandra, Craco e Grassano. Prostrata dalla terribile "peste nera", intanto, la popolazione stentava a trovare le forze e le risorse per una ripresa economica e sociale; nel 1456, inoltre, un terremoto devastante provocava danni incalcolabili ed un numero elevato di vittime, tanto che solo ad Acerenza morirono 1.200 persone; in questo clima di diffusa povertà, molti si diedero alla macchia ed alle ruberie per sopravvivere.
Nella seconda metà del XV secolo, l'avvicendamento degli Aragonesi al trono di Napoli e la caduta dell'Impero Romano d'Oriente, coincisero con una generale ripresa dell'economia in Europa. Questa tendenza che riguardava soprattutto le città, grazie al rinnovato attivismo delle botteghe artigiane e dei mercati urbani, ebbe i suoi tangibili riflessi in Basilicata, dove emergevano segnali di un incremento delle attività commerciali, soprattutto in centri ben collegati come Venosa e Matera; per la prima volta dopo anni di regresso, si registrava finalmente una sostanziale crescita demografica. All'emergere di questo dato certamente contribuì la grande ondata immigratoria che coinvolse la Basilicata in seguito alla caduta di Costantinopoli ed all'occupazione Turca. Tra il 1450 e il 1480 approdarono alle coste ioniche numerosi gruppi di esuli greci, scutariani, schiavoni e, soprattutto, albanesi giunti al seguito di Giorgio Castriota Scanderberg, il condottiero che aveva combattuto dalla parte di Ferdinando d'Aragona. Queste nuove comunità ripopolarono soprattutto la zona del Vulture (Barile, Rionero, Maschito) e poi si stabilirono a S. Chirico Nuovo, Ruoti e Brindisi di Montagna. A Matera, invece, gli schiavoni fondarono un vero e proprio quartiere scavando le abitazioni nella massa tufacea di quella parte dei Sassi a tutt'oggi nota con il nome di Casalnuovo.
In questo periodo vi sono ancora e per l'ultima volta, prima della definitiva diaspora, testimonianze di comunità ebraiche lucane, particolarmente attive e numerose a Venosa e Matera (dove ancora nel Settecento vi era un quartiere denominato il "Ghetto") composte principalmente da medici, commercianti e piccoli banchieri. 

Con l'ascesa degli Aragona al trono di Napoli si compiva la legittimazione della terza grande famiglia feudale di Basilicata, i Caracciolo. Sergianni Caracciolo, napoletano e ministro della regina Giovanna II, otteneva nel 1416 la signoria su Melfi e il territorio del Vulture, estendendo poi i domini della casata fino al Melandro e, per qualche tempo, anche su Marsico e Miglionico. 

Nel frattempo, proprio la "pazza" Giovanna II aveva in un moto d'impeto contro i suoi sudditi ordinato la distruzione della popolosa Satriano (1415), un paese di circa tremila abitanti, sede di vescovo e che da allora conobbe la sua fine poiché gli abitanti ripararono a Pietrafesa, Tito e S. Angelo, non facendovi mai più ritorno. 

L' eta' moderna


Anche nella lotta tra Francia e Spagna per il dominio sul l'Italia, apertasi con la morte di Ferdinando d'Aragona nel 1504, la Basilicata subì i soliti violenti assalti e, ciò che è peggio, le ennesime spartizioni feudali. Con la consegna del Mezzogiorno all'imperatore Carlo V di Spagna, tutti i feudatari ribelli o ostili al nuovo corso furono privati dei loro privilegi, tra questi i Caracciolo; i feudi di Melfi, Candela, Forenza e Lagopesole andarono così ad Andrea Doria "in soddisfazione della rendita annua di 6.000 ducati" e in cambio dei servigi resi alla corona, nel momento di massima ricchezza e splendore del condottiero genovese e della sua città. Maggiore il colpo inferto ai Sanseverino, i cui numerosi feudi furono divisi fra le emergenti famiglie dei Carafa, Revertera, Pignatelli e Colonna. In questo contesto si inserisce la vicenda di Isabella Morra, poetessa di Valsinni, chiusa nella torre della fortezza in seguito alla fuga in Francia del padre che, per una sospetta relazione con il confinato Diego Sandoval De Castro, venne infine uccisa dagli stessi fratelli. I versi di Isabella rappresentano una delle testimonianze più toccanti nel panorama della poesia femminile del suo tempo e un anelito di libertà che getta una luce fosca su quel "rinascimento" italiano.
Con l'avvento della nuova classe dirigente, il cui centro di potere era altrove, così come altrove erano ormai spostati i mercati dell'economia europea, le cui forze si dispiegavano nel vasto spazio atlantico, più che nel Mediterraneo, la Basilicata "riinfeudata" veniva ormai trattata alla stregua di pura merce di scambio. Affidata alla giurisdizione di Salerno mentre Matera e la Murgia appartenevano alla Terra d'Otranto, ben poco interesse veniva dimostrato dai nuovi baroni al miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei feudi lucani, ciò che importava era solo la garanzia della rendita annuale.
Nel 1528, i lanzichenecchi di Lautrec, dopo il sacco di Roma non risparmiarono il Sud e in Basilicata colpirono in particolare Melfi arrecando terrore e distruzione. Ma se i mercati dei centri urbani riuscivano in qualche modo a garantire un certo vigore economico, le campagne rimanevano invece in una condizione di generale povertà poiché gran parte della produzione agricola era assorbita dall'autoconsumo delle famiglie e ben poco del prodotto si riusciva a destinare ai mercati esterni. Su questo retroterra di povertà il potere economico delle nuove famiglie feudali impietosamente si intrecciava con il potere ecclesiastico di modo che la morsa dello sfruttamento si stringeva ulteriormente. 
In questo senso esemplare fu l'ascesa dei Carafa (principi di Stigliano) che, primo fra tutti Oliviero, abate commendatario della Badia di Monticchio, furono i protagonisti di oltre due secoli di politica spagnola nel Regno, esprimendo un gran numero di prelati e baroni e finanche un papa, Paolo IV.
È in questa fase del Rinascimento che si crea un rigoglioso mercato dell'arte legato alle grandi famiglie baronali ed alla committenza religiosa. Opere di grande pregio saranno realizzate da Cima da Conegliano Simone da Firenze e da numerosi ed accreditati artisti locali fra cui Altobello Persio, Giovanni Todisco, il Pietrafesa, Antonio Stabile e, più avanti, Carlo Sellitto e Pietro Antonio Ferro; queste tele e pale d'altare rappresentano un patrimonio artistico prezioso per la Basilicata, un tesoro perlopiù inesplorato e sconosciuto. Nella seconda metà del XVI sec., negli anni del viceregno spagnolo, la Basilicata conobbe un periodo di relativa tranquillità.
Nella vita sociale e politica della regione, divisa tra vecchie e nuove famiglie baronali, si avvertivano i primi effetti dell'emergere di una nuova classe intermedia, perlopiù appartenente a grosse famiglie locali e costituita dai rappresentanti dei baroni, dei vescovi e degli abati impegnati, in loro assenza, nell'attività di amministrazione e gestione dei feudi. Contemporaneamente al formarsi di questo nuovo corpo sociale si avviava un processo di autonomia dei Comuni nei quali, secondo una complessa macchinazione legislativa, i cittadini potevano riscattare la propria città pagando allo Stato la somma altrimenti versata dal barone. In questo modo il Comune passava al Regio Demanio e, senza l'intermediazione del barone, tutte le terre comprese nell'agro divenivano di possesso comune e quindi "universali", motivo per cui i Comuni vennero all'epoca definiti Università.
Tale processo di emancipazione, infrequente in Basilicata, aveva trovato nell'esperienza di Saponara del 1405 un prezioso esempio. Qui, la strenua difesa opposta all'avanzata delle forze reali, convinse Ladislao a concedere al popolo un indulto ( firmato il 14 aprile), che garantiva un'esenzione fiscale e l'impegno del Re a non infeudare il Comune. Le città Regie in Basilicata furono pochissime e non sempre la loro conquista riusciva ad essere duratura, poiché il riscatto era molto costoso e comportava un immenso sacrificio economico da parte dei cittadini; fra queste, oltre a Saponara, è utile ricordare l'esperienza Regia di Matera, Lagonegro, Maratea, San Mauro e Rivello. Nel corso del XVI sec. erano ormai tanti i Comuni in cui si era accresciuta la coscienza politica autonomistica, sfociando in molti casi in rivolta contro gli abusi dei baroni. A Matera, ad esempio, i cittadini sfiniti dalle esose contribuzioni richieste dal nuovo signore assegnato dal Re, il banchiere napoletano Giancarlo Tramontano, nella notte di natale del 1514 gli tesero un agguato e lo uccisero, non consentendogli nemmeno di ultimare il suo imponente castello.
Sebbene l'attività dei Comuni fosse basata su una rinnovata coscienza civica e su un certo progresso di carattere economico, evidente nel caso di Matera e Venosa commercialmente ben collegate con i porti pugliesi, la situazione non migliorava invece per le campagne e le zone interne i cui prodotti, quando riuscivano a superare la soglia del consumo personale, erano nei mercati sottoposti ad una rigorosa stagnazione dei prezzi.
A questo si aggiungeva un sistema fiscale votato essenzialmente alle imposte indirette sui generi di consumo, quindi la farina, il vino, il formaggio, la carne continuavano ad essere fortemente tassati, producendo seri problemi ai contadini. Al contrario, per evitare conflittualità con i gruppi dirigenti non veniva per nulla adottata l'imposta diretta sui beni e i patrimoni, introdotta generalmente solo nel 1742 dal "Catasto Onciario" di Carlo III. Il peso insostenibile delle imposte creava nella base del popolo un malcontento diffuso e cominciavano a verificarsi le prime manifestazioni di quel movimento antifeudale che pochi decenni più avanti avrebbe animato, con la "rivolta di Masaniello", tutto il Mezzogiorno.
Nel quadro delle rivendicazioni antifeudali ed antispagnole della metà del XVII sec., le comunità cominciarono con più insistenza a rivendicare i diritti nei confronti dei baroni e dello strapotere ecclesiastico. In Basilicata l'assenza delle dirette autorità dello Stato (poiché sottoposta alla provincia di Salerno) e l'isolamento di molti centri abitati, favorirono l'organizzazione e il diffodersi della rivolta. La sollevazione fu generalizzata e coinvolse tutta la regione: a Potenza il principe Celano fu costretto a fuggire, mentre a Vaglio il principe Salazar, uno dei capi della rivolta fuoriuscito dal carcere napoletano, si pose alla testa dell'esercito rivoluzionario al fianco di Matteo Cristiano. L'offensiva fu determinata e nel gennaio del 1648 tutta la Basilicata aveva aderito alla Repubblica ed i poteri erano ufficialmente passati al nuovo "governatore delle armi" in rappresentanza del governo rivoluzionario di Napoli, Matteo Cristiano.
La controffensiva spagnola e baronale fu violenta ed implacabile; il sogno repubblicano durò ben poche settimane e nella primavera dello stesso 1648 i capi rivolta erano già stati passati alle armi e le popolazioni domate con grande spargimento di sangue. La crisi sociale, all'origine della rivolta repubblicana, si era ora ulteriormente aggravata, ma un risultato positivo il popolo lucano riuscì ad ottenerlo e fu la decisione del governo spagnolo di destinare una provincia autonoma per la Basilicata, probabilmente per migliorarne le funzioni di controllo, e la scelta cadde su Matera.
Da quel momento, era il 1663, finalmente la regione poteva contare su propri uffici amministrativi e sulla presenza del Tribunale della Regia Udienza, che avrebbe cambiato molte cose nel rapporto fra i baroni, le autorità della Chiesa e le comunità, ora non più sordamente soggette all'anarchia feudale ed ecclesiastica. Cominciò così a formarsi una classe dirigente di professionisti delle discipline giuridiche, impegnati perlopiù a difendere i diritti delle Università e del popolo, i cosiddetti "avvocati dei poveri". Matera era del resto la città più operosa del tempo, conservando ottime attività commerciali e continui contatti con i porti pugliesi; con una popolazione nel circondario di circa 60.000 abitanti Matera, molto vivace anche sul piano intellettuale, aveva dato i natali al poeta Tommaso Stigliani e, nel secolo dei lumi, all'insigne musicista Egidio Romualdo Duni che ebbe notorietà in tutti i teatri d'Europa.
Nel XVII sec. anche la stampa faceva il suo esordio in Basilicata, grazie al volume del vescovo Roberto Roberti, stampato a Tricarico nel 1613. Questi gli aspetti positivi del Seicento, un secolo per altri versi drammatico, segnato ancora da pestilenze e carestie e da un generale riflusso demografico; un secolo sanguinolento e crudele, in cui trionfava l'intolleranza della Chiesa, i suoi roghi, le sue persecuzioni. In fondo anche la "rivoluzione di Masaniello" si chiudeva per il Sud con uno scacco durissimo, provocando il generale sopravvento delle forze reazionarie e la conseguente decadenza economica e sociale.
Nelle compilazioni del "Catasto Onciario" della metà del Settecento, si rileva che la maggior parte della popolazione lucana era composta esclusivamente da braccianti e contadini e se ad ogni famiglia spettava in media un reddito di 40 once, ai feudatari o "forestieri bonatenenti" erano invece accertate 205 once , e ben 326 calcolate per ogni ente ecclesiastico, beni considerati per la metà, secondo le direttive del Concordato.
Con queste persistenti ed esorbitanti disuguaglianze erano davvero pochi gli esponenti della società locale che riuscivano a raggiungere posizioni economiche ragguardevoli e, quei pochi, costituivano il nerbo della nuova borghesia rurale che tanta parte avrebbe avuto nella storia dei secoli successivi. L 'influenza dei nuovi orientamenti liberali e repubblicani dell'epoca dei lumi fu consistente in Basilicata, grazie soprattutto alla vicinanza di Napoli che fu il centro propulsore dell'illuminismo nel Mezzogiorno; lì infatti operavano molti uomini di cultura lucani che si sarebbero distinti nei moti di fine secolo. Ruolo di primo piano in questo senso assunse la presenza del filogiansenista Giovanni Andrea Serrao, nominato vescovo di Potenza da Re Ferdinando di Borbone nel 1783, nonostante l'opposizione del Papa. Parte autorevole del movimento cattolico riformatore napoletano il Serrao fu il fautore del nuovo orientamento liberale introdotto nella formazione del giovane clero del Seminario di Potenza e l'ispiratore dei circoli progressisti della città. L'inquietudine sociale, mai sopita nel corso dei centocinquanta anni trascorsi dalla "rivoluzione di Masaniello", esplose con rinnovato vigore nel 1799.
Il 3 febbraio la popolazione di Potenza scese in piazza e di lì i moti si estesero in tutta la regione, animati dalla "Organizzazione democratica" guidata dai giovani fratelli Michelangelo e Girolamo Vaccaro di Avigliano. Ad arginare l'insurrezione generale, basata sulla comune difesa repubblicana, tra la fine di marzo e l'inizio di aprile si sarebbe scagliata la terribile controffensiva borbonica. La prima durissima repressione si verificò proprio a Potenza dove truppe realiste assaltarono e saccheggiarono il Seminario e il vescovato, decapitando selvaggiamente sia il rettore che il vescovo Serrao, i cui corpi vennero esposti al pubblico "ludibrio". I borbonici intanto, guidati da Sciarpa, si ricongiungevano con le truppe sanfediste all'ordine del cardinale Ruffo che risaliva la penisola dalla Calabria, assoldando anche molti briganti. A lungo resistette Tito, dove infine gli uomini di Sciarpa trucidarono la famiglia Cafarelli; in aprile però tutta la parte nord occidentale della regione opponeva ancora forte resistenza tanto che il cardinale Ruffo fece richiesta di altre forze per "far crollare la costanza dei montagnuoli di Basilicata". 
Ma l'esperienza repubblicana si spegneva con il lungo assedio di Picerno dove si erano concentrate tutte le forze di resistenza insorte; il 15 maggio, caduta Picerno, trovarono la morte i fratelli Vaccaro e almeno altri settanta fra uomini e donne. Occupata Potenza i senfedisti conclusero la loro "crociata" a Melfi dove tra il 29 ed il 31 maggio la Basilicata potè dirsi riconquistata. 
La repressione seguita alla resa fu durissima e se a Napoli cadeva un'intera generazione di intellettuali illuminati e fra i tanti lucani anche Mario Pagano, in Basilicata la lista dei "Rei di Stato" divenne interminabile e la vendetta sanfedista e realista si abbattè su contadini, artigiani, sacerdoti, borghesi, tutti coloro che avevano anche pur solo vagheggiato la resistenza alla feudalità ed ai borboni.
Eppure, nonostante così dura fosse stata la repressione, gli ideali di quella rivolta non si spensero anzi, nel decennio di governo francese, nella legislazione che aboliva la feudalità e la manomorta ecclesiastica, gli animi repubblicani si risollevarono. Fra le trasformazioni introdotte in Basilicata da Giuseppe Bonaparte e il reggente Gioacchino Murat, determinante fu la decisione di trasferire la Provincia; il fulcro delle attività amministrative della regione si spostava così a Potenza, pare per l'appoggio garantito dai potentini alle truppe di occupazione francesi, cosicché, nel giro di pochi anni, il paese che si estendeva ancora solo nella parte più alta, dal Duomo alle prime case extra moenia che erano quelle di Porta Salza, dovette trasformarsi in città ed adeguare il suo assetto urbanistico alle nuove importanti funzioni amministrative; ma per questo ci volle tempo e in tanti si spostarono a vivere nei sottani per dar posto, magari in affitto, agli apparati della nuova classe dirigente. Dal 1806 al 1815, intanto, oltre 16.000 ettari di terre demaniali venivano divise, per ordine di Giocchino Murat, in 13.000 quote assegnate ai coltivatori; si frantumava così, per la prima volta, l'antico e pervicace assetto feudale della Basilicata.
La consapevolezza e la coscienza di questi diritti non sarebbe mai più venuta meno, come dimostreranno le lotte contadine proseguite fino al nostro secondo dopoguerra. 

Il Risorgimento


Con l'assetto politico e territoriale dell'Italia determinato dal Congresso di Vienna l'Austria divenne la grande potenza egemone della penisola e, ancor più, del Mezzogiorno dove la restaurazione era avvenuta proprio grazie all'intervento dell'esercito austriaco contro Murat. Con il trattato difensivo firmato il 12 giugno 1815 quale "re delle Due Sicilie" si reinsediava Ferdinando IV di Borbone, divenuto Ferdinando I, mentre l'Austria di fatto assumeva il controllo dell'esercito napoletano. 
L'alleanza tra i contadini e la giovane borghesia lucana che aveva animato le lotte repubblicane del 1799, avrebbe avuto parte di grande rilievo nella cospirazione antiborbonica della prima metà dell'Ottocento. Protagonisti dei moti carbonari del 1820-21 furono in Basilicata Domenico Corrado, che operava nel melfese, i fratelli Giuseppe e Francesco Venita, giovani possidenti di Ferrandina, fuoriusciti dall'esercito borbonico, e il dottor Carlo Mazziotta di Calvello attivo in val d'Agri. Questi patrioti postisi alla guida della resistenza lucana potevano contare sull'ingente forza d'urto delle popolazioni contadine, che muovevano istanze di libertà e richieste di nuove leggi agrarie. Ma l'epilogo fu tragico e la repressione borbonica ed austriaca si scatenò violenta ed impietosa; i fratelle Venita furono catturati nel bosco di Pietrapertosa, il dottor Mazziotta ed altri patrioti fatti prigionieri a Calvello e Domenico Corrado venne arrestato sulle Murge di Gravina di Puglia. Furono tutti processati e fucilati a Potenza, dalle truppe del generale Roth fra il marzo e l'aprile del 1822, insieme a tanti sospettati o presunti cospiratori.
Ma la reppressione, seppur violenta, ancora un volta non spense gli ideali di libertà e di uguaglianza che animavano ovunque le lotte del Risorgimento italiano. Nel 1832, venuto a sondare le possibilità di penetrazione dei programmi unitari del Mazzini e del Gioberti, arrivò in Basilicata il fiorentino Giovanni Palchetti. La popolazione era in fermento e un ruolo di primissimo piano nel sostenere gli ideali democratici ebbero quei sacerdoti lucani che in un certo senso seguivano gli insegnamenti introdotti dal Serrao sul finire del XVIII secolo. A Potenza il sacerdote Emilio Maffei, animatore instancabile di tutta la fase risorgimentale, divenne il perno del "Movimento antiborbonico ed unitario della Basilicata" al quale aderirono molti altri prelati fra cui i fratelli Luigi e Michele Biscione, presso i quali si riuniva il folto gruppo dei democratici progressisti intorno al 1848. Il centro moderato, invece, faceva capo all'avvocato Vincenzo d'Errico e si riuniva solitamente nella libreria di Giacinto Cafieri; fra questi vi era anche Nicola Sole, il poeta che tanto echeggiò nei suoi versi l'atmosfera del Risorgimento italiano. Molte delle decisioni del movimento furono assunte con la partecipazione delle autorità locali, dell'Intendente provinciale La Rosa e del Vescovo Pieramico, una "cospirazione" a cielo aperto che godeva, al contrario che altrove, di un ampio raggio d'azione. 
Con l'insurrezione di Palermo avvenuta il 12 gennaio 1848, ben presto generalizzatasi in tutto il Regno, Ferdinando II che non potè contare sull'aiuto della gendarmeria austriaca a cui il papa non concesse il permesso di transito, si vide costretto, primo fra tutti i sovrani italiani, a concedere una Costituzione (29 gennaio 1848). All'indomani vi fu grande soddisfazione fra i moderati ed i progressisti del Regno che raggiungevano un obbiettivo insperato; in questo clima di generale esultanza i contadini cominciarono a far sentire la propria voce. La mobilitazione delle campagne in molti casi anticipò l'azione dei liberali e trovò generalmente l'appoggio incondizionato della borghesia anche se con alcune ombre come nel caso del comunicato diffuso dall'Intendente La Rosa dopo l'annuncio della Costituzione, un appello a stampa con il quale si metteva in guardia i proprietari terrieri dall'aderire alle agitazioni demaniali. Ma ormai le rivendicazioni sociali interessavano tutta la regione; a Matera la sollevazione s'era così estesa che sia il d'Errico che l'arcivescovo Di Macco sollecitarono la divisione delle terre. E proprio la lotta contadina di quegli anni metteva in luce come la maggior parte degli usurpatori di quelle contese terre demaniali fossero ancora, come nel caso dei Caracciolo e dei Doria, gli eredi delle famiglie feudali insediatesi fra il Trecento e il Cinquecento.
Mentre i dimostranti guidati o affiancati dagli esponenti della borghesia locale si appropriavano delle terre usurpate, si diffondeva la notizia che il Re aveva sconfessato la Costituzione ed esautorato il Parlamento. Napoli era insorta e molti accorsero a rinforzare la resistenza, fra questi Luigi La Vista di Venosa, discepolo prediletto del De Sanctis, morto in nome della Repubblica sulle barricate di via Toledo il 15 maggio del 1848.
Il "Circolo Costituzionale" guidato dal d'Errico e dal Maffei, prese allora in mano la situazione e riuscì rapidamente a far approvare un documento che trasformava il Circolo in un "Comitato per la difesa della Costituzione violata dal Re". Il Comitato guidò l'azione di difesa e l'organizzazione militare degli insorti in Basilicata, promettendo la quotizzazione delle terre demaniali; all'inizio di giugno venne sottoscritta una "Dichiarazione di Principi Costituzionali",poi approvata dalla Dieta provinciale e da quella federale, quest'ultima indetta al Liceo di Potenza ed alla quale aderirono rappresentanti del Molise, della Capitanata, della Terra d'Otranto e della Terra di Bari. Nel corso di quella Dieta, dopo aspre contese, venne approvato e firmato un documento politico unitario, quel Memorandum che poi i borboni utilizzarono "sapientemente" per individuare i sovversivi. I moti si spegnevano in Basilicata nel luglio del 1848 e gran parte delle persone coinvolte furono processate ed incarcerate a Potenza.
Traendo le sue conclusioni nel dibattimento contro i cospiratori, il giudice Echaniz condannò ugualmente il d'Errico e il Maffei e, mettendo su uno stesso piano l'esperienza dei moderati e quella dei progressisti, concluse che quei partiti, "sebbene con diverso intendimento, miravano allo stesso reo fine: di abbattere cioé l'Autorità Reale ed attentare al potere costituito". Con questi presupposti nel 1852 gli imputati nel carcere S. Croce di Potenza erano 1.116 e tre anni più tardi, 1609. Il d'Errico fuggì a Torino dove morì nel 1856, anno in cui si concludeva il secondo processo a carico del Maffei che impavido aveva riallacciato rapporti con l'associazione unitaria dei carbonari e mazziniani sorta a Napoli e di cui facevano parte Carlo Poerio, Silvio Spaventa e Luigi Settembrini. Questa volta il Maffei fu condannato a morte ma per sua fortuna la pena fu poi commutata in ergastolo; egli però riuscirà a tornare in Basilicata nel 1860, grazie all'amnistia, insieme a Luigi Settembrini con cui aveva diviso gli anni d'esilio politico in Inghilterra.
Violenti terremoti si verificarono ripetutamente in Basilicata; dopo quello del 1851 (X grado della scala MCS) che aveva colpito il Vulture, il 16 dicembre del 1857 una scossa dell'XI grado apriva numerose fratture nella terra della Val d'Agri ed in particolare a Montemurro, dove le frane provocarono circa 5.000 vittime. Molti degli insorti, intanto, avevano abbandonato il capoluogo, ormai presidiato, rifugiandosi nei paesi della Val d'Agri. E proprio fra Montemurro, Moliterno e Corleto Perticara fu in quegli anni ordita la trama in favore dello sbarco di Carlo Pisacane che, secondo alcune testimonianze, doveva orientarsi prima in Val d'Agri, qui rinforzarsi con le forze riunite da Giacinto Albini, e poi dirigersi verso Salerno. Ma così non fu e l'impresa finì tragicamente sulla via di Sanza. Il fallimento di quella spedizione provocò forti critiche nei confronti di Mazzini e del Partito d'azione che in un certo senso avvantaggiarono la linea della Società Nazionale (1857) costituita da Cavour, con il concorso sia dei democratici moderati che delle forze liberali, per conseguire l'unità italiana. Giacinto Albini, comunque, proseguì la sua attività politica ricostruendo il partito liberale lucano con il supporto del progressista Nicola Mignogna e del colonnello cavouriano Camillo Boldoni. Sotto la loro guida si svolsero le vicende dell'agosto 1860 quando in Basilicata, prima che altrove, si innalzarono le bandiere dell'Italia unita. Le vittoriose imprese garibaldine in Sicilia avevano risvegliato gli animi popolari e ovunque erano riprese le lotte per le terre demaniali; a Matera gli scontri assunsero subito un carattere molto violento poiché il popolo insorto uccise il conte Gattini ed alcuni suoi collaboratori. Prima che la situazione degenerasse, Albini, Mignogna e Boldoni affrettarono l'iniziativa politica ed a Corleto Perticara, dove erano da tempo ospiti di Carmine Senise, per primi dichiararono decaduti i borboni proclamando l'unità nazionale. Francesco II, insediatosi nel maggio del 1859, vista l'impossibilità di controllare i moti esplosi in Sicilia con Garibaldi e già estesisi a macchia d'olio nel Regno, tentò di guadagnare alla propria causa i liberali moderati concedendo la costituzione del '48, ma ormai era troppo tardi.
In Basilicata, grazie ai collegamenti preventivamente creati dai cospiratori, fra cui collaborarono attivamente i fratelli Pietro e Michele Lacava di Corleto, gli insorti intrapresero una marcia decisa verso il capoluogo dove quasi nulle furono le resistenze borboniche; a Potenza, il 18 agosto 1860, fu insediato il Governo Prodittatoriale di Albini e Mignogna e a capo della città venne nominato il sindaco Antonio Sarli. Tutto questo accadeva ancora prima dello sbarco di Garibaldi in Calabria, dunque, dalla Basilicata, in quindici giorni si erano determinate le condizioni di indipendenza di ben nove province del Sud, facilitando il compito di Garibaldi ma anche quello di Cavour che grazie a questi moti indipendenti riusciva a giustificare agli occhi della diplomazia europea l'intervento sabaudo nel Mezzogiorno in favore dell'unità d'Italia.
Il 3 ottobre le truppe piemontesi guidate dal re si misero in marcia verso il Sud e Cavour fece approvare alla Camera una legge che prevedeva l'annessione incondizionata del Mezzogiorno, che Garibaldi ed il Partito d'azione finirono per accettare il 26 ottobre nello storico incontro di Teano. Il 13 febbraio cadeva la fortezza di Gaeta dove si era rifugiato Francesco II, che partì per Roma, e il 17 marzo 1861 il primo Parlamento nazionale proclamò a Torino Vittorio Emanuele II re d'Italia "per grazia di Dio e volontà della Nazione".
Il "Corriere Lucano", meglio titolato "Giornale Uffiziale della Rivoluzione", il 28 agosto del 1860 aveva documentato il grado di unità del movimento insurrezionale lucano che tanto doveva alla forza di quei contadini per i quali si auspicava la rapida soluzione della questione demaniale. Ma non fu così facile risolvere il problema della terra, poiché nonostante il compito di soprintendere a tale operazione fosse stato affidato all'insigne Giacomo Racioppi, il programma rivoluzionario venne applicato solo in minima parte ed il Governo Dittatoriale di Garibaldi durò ben poco, così come la guida politica all'unità di Cavour. Rimasta irrisolta l'annosa questione della terra, si apriva ancora una volta il baratro innanzi alle istanze di quella parte di società che tanto aveva contribuito all'unità d'Italia. Si producevano così le premesse di quell'isolamento delle masse rurali dalla nuova compagine dello Stato nazionale che determinò l'esplodere della guerriglia contadina e del brigantaggio. 

Il Brigantaggio


La guerra civile, perché questi sono i caratteri che drammaticamente assunse quella rivolta, durò oltre cinque anni ed interessò tutta la Basilicata e le regioni limitrofe. L'alveo delle forze dei briganti divenne il Vulture ed il suo capo più rappresentativo fu Carmine Donatelli detto Crocco di Rionero in Vulture. Fuoriuscito dall'esercito borbonico perché reo d'aver ucciso un compagno, Crocco aveva partecipato ai moti unitari del '60 ma non avendo ottenuto l'amnistia preferì al processo la strada dei boschi. Crocco riuscì ad aggregare un esercito di oltre duemila uomini, la maggior parte dei quali contadini disillusi e minacciati dalle ordinanze del Governo pro-dittatoriale che prevedevano la pena di morte per chi partecipava ai moti di occupazione e rivendicazione delle terre. Le ostilità si aprirono l'8 aprile del 1861 con l'assalto a Ripacandida, seguito da quello di Venosa, dove trovò la morte Francesco Saverio Nitti. L'occupazione si diffuse nel Vulture e talvolta i briganti venivano accolti come liberatori dalle popolazioni affrante e sopraffatte dalla miseria. Nell'ottobre del 1861, dopo l'assalto a Ruvo del Monte ed il violento scontro accaduto in agosto con i reparti dei Bersaglieri fra Avigliano e Calitri, ai briganti di Crocco e Ninco Nanco si affiancò Josè Borjes, il generale catalano spedito alla ventura nel tentativo di rinfocolare la reazione borbonica nel Mezzogiorno. Ma la sua fu un impresa inutile e disperata, come ben si intuisce dalle note del suo diario, poiché seppure cercò per diversi mesi di guidare la rivolta al fianco di Crocco, dovette prendere atto della sostanziale indifferenza dei briganti agli astratti programmi politici di restaurazione borbonica. Dopo aver fallito il tentativo di occupare Potenza nel novembre del 1861, Borjes fu disarmato ed allontanato da Crocco, morendo poi fucilato dai bersaglieri presso Tagliacozzo l'8 dicembre dello stesso anno. Nella primavera successiva, trascorso l'inverno negli impenetrabili rifugi del Vulture, i briganti tornarono all'attacco e nel 1862 la lotta si fece agguerritissima al punto che in agosto il governo proclamava lo stato d'assedio. 
Proprio in quel periodo, tramite la mediazione di autorevoli esponenti della borghesia locale si era giunti ad un accordo con Crocco ed altri cinquecento briganti, convinti ad abbandonare il campo con promessa di rifugio sicuro su un'isola. Questa ipotesi venne scartata aprioristicamente dal governo che confermava invece la linea dura, accusando anche di complicità coloro che avevano intentato la trattativa e, ignorando qualsiasi forma di mediazione, approntò la legge Pica con la quale si isituivano i tribunali militari e si autorizzavano fucilazioni immediate.
L'opposizione alla Camera fu serrata da parte di tutta quella parte democratica del governo che aveva dato credito alle conclusioni della Commissione Parlamentare d'Inchiesta, inviata in Basilicata per cercare una soluzione al problema, e che aveva terminato la sua esposizione dichiarando che la ribellione dei briganti era in fondo "la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie". Nonostante l'opposizione del Massari e del De Sanctis, la legge Pica venne approvata ottenendo il doppio risultato di affermare l'egemonia delle forze conservatrici rispetto a quelle democratiche e di accrescere la violenza dei briganti, contro i quali il governo dovette impegnare complessivamente 120.000 soldati in una guerra costosissima per il paese, sul piano sia economico che morale. 
Il comando delle truppe venne affidato al generale Pallavicini, lo stesso che aveva fermato Garibaldi sull'Aspromonte, mentre il Prefetto di Potenza Veglio completava la linea telegrafica di collegamento tra il capoluogo e Tricarico, Matera, Melfi e Lagonegro. 
Il 13 marzo del 1864 veniva catturato e fucilato presso Avigliano il comandante dei briganti Ninco Nanco mentre per la defezione di Giuseppe Caruso, il Pallavicini riuscì a sorprendere la banda di Crocco sull'Ofanto, il 25 luglio.Ciò nonostante l'imprendibile Crocco riuscì a fuggire con undici dei suoi ed a raggiungere incolume i territori dello Stato pontificio credendosi in salvo. Ma così non fu, il clima politico era cambiato e proprio "quel Gran Pio IX", come egli stesso testimoniò più avanti, dopo la cattura avvenuta a Veroli per mano delle truppe pontifice, 
lo fece rinchiudere nelle carceri nuove di Roma. Così terminavano gli anni più accesi della lotta brigantesca e Carmine Donatelli detto Crocco, condannato a morte a Potenza l'11 settembre del 1872, riuscì a scontare il carcere a vita nel bagno di Portoferraio dove divenne uomo di lettere e dettò le sue memorie. 

L' unita' nazionale


Le svolte del governo sui temi di politica interna e di ordine pubblico in quel primo decennio unitario, da Rattazzi a Minghetti, determinarono le coordinate di un irreversibile declino sociale ed economico del Meridione. "Tutti sono buoni di governare collo stato d'assedio" aveva detto poco prima della sua morte Cavour e riferendosi ai popoli del Sud aggiungeva: "Io li governerò colla libertà e mostrerò ciò che possono fare di quel bel paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le province più ricche d'Italia. No, niente stato d'assedio, ve lo raccomando". Ma se il pensiero di Cavour aveva influenzato enormemente la classe dirigente meridionale dal De Sanctis al De Cesare a Giacinto Albini ad Aurelio Saffi, ben altra era l'aria che si respirava nei circoli conservatori che avevano ormai assunto le redini assolute della politica italiana e dove la parola d'ordine era "dimenticare Cavour" e le idealità del Risorgimento.
Il sopravvento della società laica del nuovo Stato Italiano, che aveva in sostanza incamerato i beni della Chiesa per il dichiarato atteggiamento antiunitario da questa sostenuto, comportò l'esodo di gran parte del clero locale che abbandonò quasi tutte le sedi vescovili della Basilicata, dimentico ormai della tradizione democratica cattolica che pure aveva contraddistinto tanta parte dei sacerdoti lucani. La proprietà rurale confiscata alla Chiesa venne venduta senza prevedere alcun accesso diretto o beneficio ai contadini; in Basilicata fra il 1866 ed il 1876 furono posti all'asta 51.500 ettari di terra per un valore complessivo di 19 milioni di lire. Le maggiori unità erano allora quelle di Potenza, Matera, Melfi, Oppido, Atella, Tursi e Senise e i beneficiari di quella spartizione avrebbero costituito la nuova borghesia agraria della Basilicata da cui sarebbero emersi anche i nuovi leaders politici. In questa temperie si colloca l'esperienza politica di Giacomo Racioppi; nato a Moliterno nel 1827 egli fu intellettuale illuminato e liberale, perseguitato come cospiratore nell'Italia preunitaria, assunse posizioni contrarie allo stato d'assedio imposto dal governo contro il brigantaggio e nel 1863, in seguito all'ennesima discordia politica, si dimise da funzionario della Prefettura di Napoli facendo ritorno a Moliterno. Erede diretto dell'illuminismo napoletano egli divenne attento osservatore e descrittore del suo tempo e del passato, e le sue ricerche tutt'oggi costituiscono il punto di riferimento cruciale per la storiografia del Mezzogiorno.
Le conseguenze disastrose della politica conservatrice si fecero presto evidenti. In Basilicata, in particolare, il tasso di mortalità infantile era elevatissimo e le condizioni ambientali estremamente degradate per la presenza di vaste zone malariche. Per questi ed altri motivi fra il 1876 e il 1900 ben 180.000 lucani abbandonarono la regione per emigrare al Nord o all'estero, per lo più in America.
L'ultimo intervento di bonifica di fatto portava la firma dei borboni e riguardava il Vallo di Diano, fra Basilicata e Campania, di lì in poi nulla era stato fatto dal governo della "nuova" Italia. I primi studi sulla persistenza della malaria nel Sud, condotti dal dott. Michele Lacava e da Giovanni Pica, fra il 1885 e il 1889, dimostrarono che sui 125 comuni della Basilicata solo nove erano realmente immuni dall'infezione, nella totale assenza di difese ed assistenza sanitaria. 
Del resto la regione mancava di qualunque organizzazione infrastrutturale, la viabilità era scarsa e questo aveva inciso non poco nell'aggravarsi dei fenomeni di delinquenza sociale e nel penalizzare le attività produttive e gli scambi. L'organizzazione dei trasporti per le derrate collegava solo le principali aree produttive della regione, il Vulture e il materano, con i porti pugliesi di Taranto e Bari, ma escludeva il capoluogo e gran parte delle aree interne. Non è un caso, difatti, che proprio a Matera nasceva il primo Istituto di Credito autonomo della regione, la Banca Popolare sorta per impulso del sotto-prefetto Prosdocimi nel 1879; a questa fondazione ne seguirono altre e nel 1888 le banche popolari della regione erano ben 45 e comprendevano circa 14.000 soci.
Negli stessi anni nasceva anche la "Lega Agraria" , sorta per volere di Francesco Paolo Materi, neo deputato e grosso proprietario terriero di Grassano, che intendeva coadiuvare l'attività delle imprese agricole per facilitare le azioni di credito. A testimonianza del rinnovato vigore economico decretato dalla confisca e dalla vendita dei beni della Chiesa; a Potenza, ad esempio, i Branca e gli Scafarelli si aggiudicarono 2.500 ettari di terra spendendo qualcosa in meno di un milione di lire che, se vogliamo, corrispondeva ad un terzo dell'intero capitale versato dai 14.000 soci degli istituti di credito lucani nel 1888.

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