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La Lucania

  Miti e leggende della Lucania

Girando e e girovagando per la Basilicata on My Mind incontro un territorio con una forte dimensione fabulistica.

 


Una terra magica, arcaica impregnata di elementi tradizionali e popolari. Una terra in cui perduravano pratiche e credenze ancestrali di origine precristiane, cosi che da determinare un sincretismo magico- religioso. “Quest’altra ragione, che è tipica della civiltà contadina, noi la chiamiamo magia”. Il territorio offre un’articolata serie di ricerche, pubblicazioni, raccolte, distribuite in un reticolo sull’intera regione. Questa offerta delinea buona parte del territorio come nuclei significanti, che hanno generato narrazione ma che soprattutto possono produrne. La letteratura racconta una terra contenitore di elementi magici intuiti, le cui dinamiche sono accettate come stato di fatto; terra in cui i piani temporali sono ciclici o addirittura assenti, una terra in cui la mescolanza culturale ed etnica ha tratteggiato una serie di credenze magico-simboliche che le hanno conferito una atmosfera magica. Un’atmosfera che trasferita in narrazione ha strutturato una letteratura del real-meraviglioso lucano.


Si citano, ad esempio, alcune opere recenti di narrazione generato dal territorio: Ballo ad Agropinto, Giuseppe Lupo,Venezia , Marsilio Editore , 2004 Il padre degli animali, Di Consoli Andrea, Milano, Rizzoli, 2007 La strega di Colobraro, Petroni Giulio, Roma , Dalia, 2004 Mille anni che sto qui, Venezia Mariolina, Torino, Einaudi, 2006 Vito Ballava con le streghe, Sammartino Mimmo, Palermo,Sellerio Editore, 2004


Tra le diverse offerte turistiche che un territorio può offrire quelle imperniate sui beni immateriali sono tra quelle maggiormente evocative ma è anche quelle che necessitano di maggiori attenzioni e professionalità per essere costruite e organizzate. Il Turismo magico, legato alla magia di carattere popolare, sta acquistando forte richiamo e interesse, capace di poter confezionare un circuito turistico in grado di valorizzare l’intero territorio, citiamo ad esempio il tour nei “paesi delle streghe” sui Pirenei spagnoli, o dei castelli magici e incantati in Scozia. Può accadere anche in Basilicata? La magia può essere il volano per lo sfruttamento, in termini turistici, della sfera dell’immaginario legata al territorio. In un territorio in cui la dimensione magico–simbolica si percepiva un po’ ovunque le cui tracce non sono ormai tanto rintracciabili, vi è una località, Colobraro, in cui il fenomeno della magia popolare sembra non essersi esaurito. Il suo nome è associato alla magia e alla superstizione; il suo è un nome che non si può pronunciare e per indicarlo si usa :“quel paese” L’opera di De Martino “Sud e magia”, strappò alla tradizione orale molti aspetti di quella cultura popolare e documentò particolari riguardo alla fascinazione, al mondo della magia, ai rituali della superstizione e alle credenze popolari, certificandone quasi la fama di paese “magico-popolare”. A tale certificazione si sono aggiunti aneddoti sugli influssi negativi che accompagnavano il paese, fissati anche per iscritto sia da testimoni sia da altri, che hanno travalicato i confini regionali ed ha attirato l’’attenzione di tv e stampa.


Misteri, enigmi, leggende e storie incredibili. Come recitava il titolo di una commedia del grande Eduardo De Filippo - “Non è vero ma ci credo” - tutti, chi più chi meno, siamo propensi a lasciarci incantare dal fascino dei luoghi e da quello che vi si cela. Che poi sia reale o immaginario poco conta. L’importante è farsi trasportare dal fascino della magia intesa nel senso etimologico del termine. Magia deriva dal greco magheia che a sua volta è l’alterazione della parola “mag” il cui significato è sapienza. Ogni popolo, ogni nazione e ogni regione ha la sua radice magica. E in Basilicata - nello specifico nel Potentino - la radice magica la ritroviamo ovunque: nei paesaggi come nei luoghi storici, come le mure degli antichi manieri o delle cattedrali. Di generazione in generazione la tradizione orale ha tramandato storie di miti e leggende diventate poi oggetto di studio. “Sud e magia” di Ernesto De Martino ne è un esempio. Ma anche il “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi non è da meno. E allora cosa c’è di male nel lasciarsi prendere e trasportare dall’aspetto magico dei luoghi. Aspetto magico che poi contraddistingue un vero e proprio approccio alla vita. E quindi partiamo per questo piccolo viaggio alla scoperta di alcuni luoghi e leggende. La Lucania è ricca di calore umano con l'aggiunta di suggestioni storiche, bellezze naturali e una cultura gastronomica straordinaria. E' la Lucania dei cavalieri templari, il luogo di sosta e di preghiera negli anni delle Crociate, per alcuni persino il possibile punto di approdo nella lunga caccia al Santo Graal. La migrazione sulle tracce del Graal si concentra in particolare nei piccoli centri del potentino sparpagliati ai piedi delle Dolomiti Lucane: città come Forenza, Acerenza, Venosa, Castelmezzano, Serra di Vaglio e Lagopesole si aggiungono infatti alla mappa delle località legate al mistero del Graal, di fianco a mete più note come Rosslyn Chapel in Scozia e la chiesa di Santa Maddalena a Rennes le Château in Francia. La stessa Banzi è stata per sei anni la dimora di Papa Urbano II di Cluny, il promotore della Prima Crociata del 1095, elevando la Basilicata a possibile sede strategica e luogo di ristoro morale e spirituale per le sue truppe. Non è difficile crederci: al di là delle numerose testimonianze storiche sono stati in tanti a riconoscere la magia della Basilicata, definita dal maestro Francis Ford Coppola “...una meravigliosa Regione d’Italia, così poco conosciuta”.



Forenza e la leggenda del Crocifisso


Nel 1684 i francescani riformati costruiscono a Forenza un convento che prende il nome di SS. Crocifisso, è proprio l'intensità drammatica del suo crocifisso, la profonda espressione di dolore riflessa sul volto del Gesù che porta a rafforzare ancora di più l'aura di pietà che il crocifisso deve dare. A questo contribuisce una leggenda che vede il frate scultore, Fra Angelo da Pietrafitta incapace di completare il capo del Cristo. Stremato dalla fatica al risveglio trova l'opera rifinita, forse dalla mano di un angelo. Il Santissimo Crocifisso di Forenza nella cultura popolare è soprattutto leggenda. Ed è proprio questo strascico di leggende legate alla suggestiva statua, che si giustificano tre secoli di ininterrotta devozione. La leggenda più inquietante è certamente quella legata a Fra’ Angelo. Secondo questa lo scultore,dopo aver terminato il corpo della statua (di dimensioni poco più grandi del naturale), si accingeva a scolpire la testa. Ma, dopo aver provato e riprovato, non riusciva a modellarne una che fosse all’altezza della rappresentazione: il Cristo morente sulla Croce. Ormai stanco e per l’ora tarda, decise di coricarsi. Al mattino, rimuovendo il velo che copriva la statua, con grande stupore la trovò completa: un Angelo nella notte aveva portato dal cielo un volto ad immagine e somiglianza di Cristo. La leggenda in realtà si giustifica pienamente osservando la statua. Qualcosa di miracoloso si scorge osservando il volto da destra a sinistra: l’espressione di Gesù morto osservandolo sul lato destro, Gesù agonizzante guardandolo di fronte, Gesù sorridente nel particolare sinistro. Una seconda leggenda, meno nota ma tuttavia ben presente nella tradizione orale del posto, è legata ad una filastrocca ricordata dai più anziani: Frà Angelo che cade in un sonno profondo e nel sogno incontra Gesù il quale lo loda dicendo: “In cielo mi vedesti, in terra mi facesti”. “Non abbiate paura, il tredicesimo Cristo si è fermato a Forenza! “. Così recita un altro antico detto, dal quale si può trarre una conferma alle fonti che vogliono il Crocifisso di Forenza tredicesimo ed ultimo dell’opera di Fra’ Angelo. La frase è evidentemente legata alle catastrofi naturali cui il paese fu certamente soggetto nel tempo e come lo è ancora. Gli anziani probabilmente la raccontavano ai più giovani per rassicurarli: ché tanto il Crocifisso protegge da alluvioni, terremoti, frane. Proprio un terremoto vuole il Crocifisso protagonista della difesa del Convento (e più in generale del paese) in tempi più recenti. Infatti, all’arrivo degli alleati alla fine della seconda guerra mondiale, i tedeschi, accampati nel Convento, tentarono di sottrarre il Crocifisso dall’altare. Un terremoto (limitato alla sola chiesa!) si scatenò dalle fondamenta della chiesa e fece scappare i tedeschi i quali, impauriti, lasciarono di corsa il paese.



LAGOPESOLE - La leggenda della bella Elena degli Angeli


Una leggenda avvolge ancora il castel di Lagopesole, il pianto di Elena, si dice che al tramonto si possa a volte intravvedere il fantasma della bellissima Elena vestita di bianco, nascosta dietro le tende di una della finestre La leggenda, certamente legata ai fatti storici che avvennero dopo la sconfitta e la morte di Manfredi, dice che in alcune particolari notti, quando la luna è alta nel cielo e tutta la campagna tace, dal Castello si vede apparire e scomparire una luce portata da una fanciulla vestita di bianco e si sentono lamenti, invocazioni ed urla di disperazione. La bella Elena degli Angeli, moglie disperata di Manfredi, torna al Castello dove visse felice a cercare il caro marito e gli amati figli perduti per sempre. Ed il biondo Manfredi, cavalcando il suo magnifico stallone bianco, con un bellissimo vestito dal lungo manto verde nella profondità della notte può essere incontrato nelle campagne attorno al Castello, che vaga all'eterna ricerca della sua famiglia distrutta dall'Angioino. Manfredi è stato l’ultimo re svevo di Sicilia. Figlio dell’imperatore svevo Federico II di Svevia e di Bianca Lancia, nipote di Enrico VI e pronipote di Federico I di Svevia detto Barbarossa fu reggente dal 1250 e quindi re di Sicilia dal 1258. Morì durante la battaglia di Benevento, sconfitto dalle truppe di Carlo I d’Angiò. Il castello di Lagopesole è famoso per aver imprigionato Elena Ducas, la moglie di Manfredi di Svevia. Elena ebbe vita breve, morì senza compiere neppure 30 anni, perchè in seguito alla morte del marito venne imprigionata da Carlo d’Angiò . Avvolta nella totale tristezza e nel dolore si lasciò morire d'inedia. La beffa per questa povera donna è che questa rocca è la stessa in cui ebbe vita felice con la sua famiglia, perchè qui passò i più bei momenti della sua esistenza. Leggenda narra che lo spirito della povera Elena, chiamata anche “Elena degli angeli”, non abbia mai abbandonato questo luogo, perchè in eterna attesa del ritorno dell'amato marito e dei suoi figli. Si dice che al tramonto si possa a volte intravvedere il fantasma della bellissima Elena vestita di bianco, nascosta dietro le tende di una della finestre e con in mano una lanterna, a guardare l'orizzonte lontano. Si dice che lo stesso Manfredi avvolto da un manto verde cavalchi uno splendido cavallo bianco la campagna circostante alla ricerca a sua volta dell'amata. Ma nessuno dei due riesce a scorgere l'altro e si perdono in un'eterna ricerca, destinati anche nell'aldilà a non incontrarsi mai.



LAGOPESOLE - Il BARBIERE DI FEDERICO BARBAROSSA


Federico I Barbarossa, in vecchiaia, si ritirò al Castello di Lagopesole e, siccome era afflitto da una deformità congenita che lo costringeva a nascondere delle orecchie allungate e puntute sotto una fluente capigliatura, per impedire la divulgazione della notizia della sua deformità, l'imperatore aveva ordinato che i barbieri da cui si faceva radere, al momento in cui lasciavano la dimora imperiale, venissero portati, attraverso un corridoio, in una torre dove era un trabocchetto, nel quale erano spinti e rimanevano sepolti. Da questa triste sorte un barbiere giovane riuscì a sfuggire evitando la mortale torre. Ebbe salva la vita a condizione che non avesse raccontato a nessuno del segreto dell'Imperatore. Il nostro barbiere era veramente intenzionato a mantenere il segreto, ma la notizia era grossa, allora, non volendo mancare alla promessa fatta, anche perché temeva giustamente per la propria vita, andò nel luogo più nascosto della campagna di Lagopesole, una volta arrivato, scavò un buco profondo nel terreno e, parlandoci dentro, raccontò il segreto dell'Imperatore. Dopo qualche tempo, sul posto, crebbero delle canne che, agitate dal vento, con il loro fruscio, che diventava sempre più forte ed insistente, ripetevano una canzone "Federico Barbarossa téne l'orecchie all'asinà a a a a ...", di qui il ritornello è giunto fino ai tempi nostri ed è stato ripreso anche in canti popolari della zona. C’è poi un particolare su cui aleggia una leggenda: sul torrione del castello vi è un ingresso posto a 4 metri di altezza che sembra una gigantesca finestra. Vi sono ai lati due mensole con teste umane: a destra vi è il volto di Beatrice, la seconda moglie di Federico Barbarossa, mentre a sinistra viene rappresentato lo stesso imperatore, provvisto di corona, lunghi capelli e orecchie d'asino. Simbolicamente queste orecchie esagerate dovrebbero rappresentare il potere del sovrano di ascoltare tutto e tutti, ma vi è una leggenda che narra che Federico Barbarossa venne colpito in vecchiaia da una malattia congenita che gli deformò le orecchie.



IL SANTO PESCATORE - LEGGENDA DEL VULTURE


Il primo uomo, che abitò la nostra montagna, era un giovane pescatore. Camminava a piedi nudi e a testa scoperta, e portava abiti di pelle di capra e di pecora. Si dice che fosse un santo: certo che come i santi lavorava dalla mattina, pregava spesso Dio inginocchiato, si nutriva di miele, di latte e di pesci. Venuto forse da montagne più nevose ed alte della nostra o dalla Puglia, liscia e piana come la palma della mano, si costruì con le canne un pagliaio, con le querce una barca, con i fili di canapa le reti. Dalla sua terra aveva portato una scure e delle pecore. La notte dormiva nel pagliaio. I lupi passavano, sentivano la carne umana, ma non lo uccidevano; i cinghiali non gli devastavano il seminato, perché Dio protegge le anime buone, ed il pastore era buono e santo. Una volta, verso mezzanotte, si destò di botto: una luce, tremula e bianca come argento, entrava nella capanna. Il pescatore si fregò gli occhi; non aveva visto mai cosa simile. Uscì fuori, guardò la terra e il cielo: una meraviglia! Il cielo non aveva né stelle né luna: era azzurro-viola come nell'ora del tramonto, la terra era velata d'argento come la Via lattea, fioriva di stelle grandi e lucenti, taceva come un cielo d'estate. <> pensò il pescatore. <> si domandò. Ma non poteva essere il demonio, perché il demonio non ha lo splendore delle stelle, ma la vampa livida e rossastra del fuoco. Il pescatore camminò pel meraviglioso paradiso. Gli alberi non si muovevano, rifiorivano di tremule stelle e spandevano foglie lucenti; la montagna mandava al cielo raggi sterminati di luce,; non cantava l'usignolo ed il grillo, non stridevano il gufo ed il cuculo, il lupo taceva: solo dal cielo pareva calasse una dolce armonia. Il pescatore giunse ai laghi: il piccolo, rabbrividendo, vaporava spume di luce; il maggiore, dov'era la barca, sembrava uno specchi d'argento. Vicino, a pochi passi dalla sponda, v'era un gomitolo d'oro. Il pescatore guardò: gli sembrò che un cerchio d'oro se ne sciogliesse, e vide una testa di donna con una lunga chioma d'oro, ondulante sulla superficie del lago. La donna piangeva. <> gridò il pescatore, che riconobbe l'amata mortagli. Ma la voce non si sentiva: tutto quella notte doveva tacere. Allora sciolse la barca e batté il remo. >; ma rimbombava solo il fracasso dei remi, e la donna aveva paura. L'uomo si disperava. La sciando andare il remo, fisso la donna che, al solito, s'era fermata poco lontano e piangeva. Allora prese la rete e la buttò nel lago. La donna scomparve. <> disse e tirò la rete. Vide tremolare e cadere da questa tante stelle, e la donna non v'era: riapparve a poca distanza dalla barca. <> si domandò il pescatore. Aveva allora allungato il remo che dal fondo del lago apparvero mille e mille donne, tutte simili a Nella coi capelli d'oro e con gli occhi piangenti; e poi vennero mille brutte vecchie, secche e senza denti, che circondarono le belle fanciulle e sghignazzavano senza misura. Il pescatore non distinse più la Nella sua: quando allungava il remo fuggivano le belle e s'appressavano coi loro orribili visi le brutte. E così per tutta la notte, sino al canto del gallo, inseguì senza posa alcuna. L'altra notte lo stesso, poi l'altra, e ancora ed ancora, finché il pescatore si disperò, non pregò più Dio e impazzì.... Spesso nelle notti d'estate, per un'ora sola, nel bosco tutto s'acquieta e diventa d'argento; e allora dalla sponda del lago si vede un pescatore, vestito di pelli di capra e di pecora, che insegue tante e tante belle donne dai capelli d'oro, senza fine, disperatamente. Guai a chi si ferma! Bisogna fuggire; se no, come il santo pescatore, non si prega più Dio.



IL PASTORE ANDREA


Il pastore Andrea era un uomo un pò misterioso. Aveva letto le sacre carte, e studiava sempre la segreta virtù delle pietre e delle piante. Quando una pecora u una persona ammalava, veniva pastore Andrea, applicava qualche erba pesta, ed il male spariva. La sua graggia era la più florida della montagna: egli tondeva due volte l'anno la lana bianca delle pecore, che aumentavano a dismisura. Pure non era felice: si vedeva bene dal volto.... La fronte alta, gli occhi neri e profondi avevano l'espressione d'un odore sconfinato; parlava poco, non cantava mai, pregava spessissimo in mezzo la greggia pascolante, a capo scoperto e inginocchiato. Non si conosceva la sua età: talvolta aveva un viso d'innocente fanciullo, tal altra una voce tremula e severa di vecchio. Conosceva i misteri della montagna e del cuore umano, sapeva il segreto delle piante, la vita delle cose, e studiava, studiava sempre sacre carte. Quando conobbe tutto, egli volle vedere il Pastore dei pastori, che abita nella santa città, a Roma. Chiamato un giovane, suo benamato, gli affidò le pecore, raccomandandogli : «Giovanni, abbi cura della greggia mia! É benedetta dal Signore. Tu serba l'animo mondo, ed il signore darà a te la pace, alla greggia la lana bianca». «E tu?» domandò Giovanni. «Io vo a Roma per vedere il Pastore dei pastori». Giovanni non capì; a pastor Andrea discese solo, senza mezzi, con l'animo ricco di grazia divina, dalla montagna dov'era cresciuto. Attraversò la Puglia, la Puglia senza montagne e senza fontane. Tutto in quella terra sembrava fosse calore, ricchezza e sete. I campi di grano s'estendevano senza fine ondeggiando, ed i canti dei mietitori celebravano la potenza del sole, che rende bronzea la pelle umana e argentei i verdi fili di grano. Andrea soffriva orribilmente la sete ed il calore: camminava ore intere senza trovare una grotta fresca e zampillante d'acqua: non un fossato, non una polla di sorgente, non un metro di muschio. La polvere delle strade, fina e bianca, gli essiccava il viso; i tramonti e le aurore, avvampanti di fuoco sterminato, lo sgomentavano. Pure egli continuava: Dio amorosamente lo vegliava. Giunse al mare. Oh! il mare è buono, è carezzevole come la mamma nostra. Pastore Andrea si posava sul lido e, cullato dalla dolce nenia dei flutti, s'adormentava. Le acque capricciose e spumanti gli lambivano le mani, i piedi stanchi; lo coprivano di fresca rugiada.... E Andrea sognava della sua umida montagna; delle sue pecore e del Pastore dei pastori, che parla con Dio. Lascò il mare e, cammina cammina si trovo di nuovo in mezzo alle montagne alte e splendenti come cristallo, pei ghiacciai. Il sole vi si rifrangeva come in un specchio e non squagliava il ghiaccio, che pareva infinito. Pastore Andrea sentiva freddo. Il suo vestito era lacero, i piedi nudi, le membra contuse, e dal giorno della sua partenza non aveva mangiato. Lo sostentavano la preghiera ed il santo desiderio di veder Roma. La notte, s'addormentava sul ghiaccio: e Dio, che lo vegliava amorosamente, faceva fioccare dal cielo la neve sul suo corpo. Questa, soffice come piuma e bianca come lana, copriva il pastore, che segnava i più bei sogni e, se il sole non avesse potentemente sfolgorato, avrebbe dormito sempre. Frattanto pel viaggio e le sofferenze pastore Andrea s'era estenuato: gli occhi s'erano incavati; la pelle rugosa; i capelli lunghi lunghi; la persona stecchita; il petto poi gli era divenuto trasparente, e rosso e grande si vedeva il cuore. Più settimane passavano, più pastore Andrea soffriva, più il suo cuore diveniva rosso e grande. Finalmente, quando mancavano altri pochi giorni per compiere il viaggio, scontrò numerosi pellegrini. V'erano uomini dal viso nero, altri dal viso giallo, re, imperatori, un'infinità e varia turba di persone. Tutti portavano doni al Pastore dei pastori: chi cavalli, chi oro, chi seta. Solo pastore Andrea non aveva nulla: «Se avessi menato la graggia!» sospirava. Frattanto il suo petto diveniva trasparente ed il cuore splendeva come fiamma. Roma è la città di Dio; è la dimora del papa é tutta d'oro e d'argento. Il papa porta come i pastori un berretto, ricco di gemme però, ed un bastone d'oro. É un vecchio venerando, non ha mai peccato e indende il linguaggio degli uomini e degli angioli. Stà su un tronco d'oro, accetta le offerte dei pellegrini e li benedice. Il trono è alto alto, bisogna salirvi per una lunga scalinata. Pastore Andrea non aveva coraggio d'avvicinarsi: tutti portavano doni e lui non aveva nulla, proprio nulla da offrire. «Padre», gridò, «io non ti porto niente. Ti porto il mio cuore, eccolo!» (il cuore risplendeva come fiamma). «Ho traversato, senza bere e senza mangiare, la Puglia polverosa; mi sono riposato sul duro scoglio, ho dormito sulla neve; le mie vesti sono lacere, il petto consunto. Padre, non posso offrirti altro che il cuore». Il Pastore dei pastori lo guardò e gli fe' cenno di salire. La folla ossequiosa fece ala ad Andrea. Ma la scalinata era lunga, ed egli non aveva più forza. Non volle essere aiutato: aveva attraversato tante montagne, ora non poteva salire cento scalini! Carponi giunse, senza fiato e senza vita, al trono. Gli occhi s'erano inondati di celeste grazia, nel vedere il candido Pastor dei pastori. Tese le labbra per baciargli il piede e spirò. Anche morto, il cuore risplendeva come fiamma viva. Nella chiesa si gridò: «Miracolo! Miracolo!».



FIORELLA DORMIENTE


Fiorella, la vergine folle, s'addorme sulla riva dell'Ofanto, dove i pioppi alti e bianchi ed il giunco rigoglioso attenuano la fiamma del sole. Ella non ha più veste: la bella veste muschiosa qua e là ha lasciato in lembo nelle notti di primavera. Come belle le notti di primavera!.... Allora Fiorella s'è da poco svegliata dal lungo sonno: ha una veste fresca e verde come il grano che spunta, gira leggiera come un soffio di vento, e con le palme aperte versa il profumo nei calici dei fiori schiusi senza odori. La veste le svolazza flessuosa, spesso s'impiglia in un rovo o sbatte contro una roccia; ed allora il rovo fiorisce e la roccia si copre di muschio. Gli occhi di Fiorella sono deboli: non reggono al sole d'estate ad al baglior delle nevi. Quando il sole accartoccia le foglie, Fiorella scappa tra i giuncheti, sulla sponda umida dell'Ofanto, dove fremono i pioppi alti e bianchi. Cerca un luogo dove non penetri la luce e, serrate le mani, dorme profondamente. Cadono lente le foglie dei pioppi sulla vergine folle; le querce della montagna la coprono delle loro fragili e tremule foglie. Ed ella con le mani serrate dorme profondamente. I fiori non hanno profumi, perchè Fiorella, la notte, non spande più il soave effluvio. Poi l'autunno distende la nebbia fitta e grigia, Fiorella ha freddo.... L'inverno fiocca la neve bianca e soffice, che macera le foglie e gonfia l'Ofanto. La montagna non ha più precipizi, par quasi monotona ed eguale come pianura. E Fiorella non dorme più: ha paura. Prega la terra che le ritessa la nuova veste fresca e verde, come il grano che spunta; sente i germi dei fiori che la chiamano, il sole che intiepidisce; ed, una bella notte, rigida per la terra, versando dalle mani aperte effluvi nei calici dei fiori.



San Chirico Raparo: l’acqua, la ninfa, il fauno e i monaci basiliani.


La tradizione, ci racconta che San Vitale, monaco di rito greco proveniente giunto ai piedi del monte Raparo, nei pressi dell’attuale San Chirico Raparo, tra il 980 e il 986, abitò in una grotta e costruì il convento di S. Michele Arcangelo. Più tardi i monaci vi costruirono sopra la Basilica. La grotta ricca di stalattiti e stalagmiti, con numerose gallerie e vasche, è bagnata dalla fonte “Trigella” (dal Lat. Trigelida=molto fredda). Alla fonte è legata la leggenda della Ninfa Ripenia che, per sfuggire al fauno Crapipede, si rifugiò nelle vasche della Trigella. Il fauno per vendicarsi fece prosciugare la sorgente e rese l’acqua non potabile. Il freddo scorrere delle acque leggere, la storia del fiume Trigella fra racconti della tradizione e ricerche degli storici nei secoli. Acque gelide e misteriose nelle quali il mito tende la mano alla scienza e alle sue spiegazioni. Avvolta in un territorio angustio e verde, capace al principio di impaurire lo sprovveduto alla ricerca del fiume misterioso, la Trigella si nasconde allo sguardo dei curiosi nei mesi invernali per poi rinascere a primavera. Scherzo del destino o vittima dell’incantesimo del fauno, è difficile ascoltare il suo suono nei mesi invernali. Le piogge alimentano i rigagnoli che scorrono a valle, tutto è avvolto in una coltre di nebbia, ma di lei non si ode il suono, lei non scorre sulla terra come un’indifferente passante, lei, la Trigella è parte di questa terra, trae origine dal suo cuore pulsante, sgorga dai meandri più nascosti del suo cuore, e viene a portare rinfresco a chi non può fare a meno di assaggiarla. E’ con la primavera che si risveglia il suo canto d’amore, è nei primi mesi del tiepido tepore che, mentre la natura si sveglia del sonno invernale, porgendo l’orecchio la si sente scorrere sempre più forte, il suo cuore pulsante interrompe il silenzio che la circonda, lo rende vivo, fino a riaffiorare a galla. Un fascino senza tempo, forse quello dell’amore misterioso, reso speciale dal suo essere riservato, così come scrive Emilio Magaldi nel lontano 1932: “Scendendo dal ponte della provinciale, per un ripido sentiero, al torrente della Trigella- nome che vorrebbe dire la gelidissima- e seguendo a ritrovo il corso del fiumicello rumoroso e spumeggiante, si arriva ad un punto al di là del quale il letto del torrente non reca la benché minima traccia di acqua”. Le linfe della Trigella spariscono nel nulla, forse perché catturate ed imprigionate nei versi di Pontano e nel mito amoroso della ninfa Rupenia e del fauno, ben narrate nel poema Meteore. Esametri che delle gelide acque della Trigella narrano di un amore non corrisposto, della sofferenza di chi innamorato veniva schernito, e della voglia di punire la fonte delle sue pene. Un giorno stanco di tanto soffrire, il fauno vedendo la ninfa schernirlo “al riparo delle gelide spumose onde del torrente, allontanò il gregge dalla fonte, deciso a non ricondurvelo mai più e mandò terribile maledizione”. Nessuna bestia avrebbe dovuto avvicinarsi alla Trigella, chiunque lo avesse fatto: “non vedrà parti né prole, ed ogni volta che avrà gustato dell’acqua se ne partirà coi fianchi addolorati”. E fu così che le vene della fonte si seccarono, le sue braccia scomparvero per tutto l’inverno per ricomparire solo a primavera. Perché come traduce Paolino Durante nel 1833: “Quando poi declina rapido il sole, e l’anno fugge, allora cerch’indarno nel fonte umore o brina. Dirai meravigliando: Ov’è la chiara onda d’argento della mia Trigella? Perchè con lei natura è fatta avara? E accuserai la sua maligna stella”. Forse solo una leggenda, forse un semplice fenomeno carsico di intermittenze, eppure il lento sgorgare della Trigella non perde il suo carattere magico, quello capace di far sognare il Pontano. Non abbandona quell’atmosfera misteriosa che la rende ricercata agli occhi degli increduli, non permette al passante di trascurarla, perché con le sue note è capace di richiamare la sua attenzione su un angolo particolare della Lucania, quello che aveva affascinato i monacibasiliani, regalandogli tranquillità e sicurezza.



La "Madonnina di Terracotta”


La Basilicata è terra di leggende e storie. Qui vi è una dedicata ad una Madonna. Il culto mariano è molto sviluppato in Basilicata e diverse e molteplici sono le forme di devozione. “In una splendida valle della Lucania viveva tempo fa una madre con una figlia e un figlio in una casetta misera sotto una parete di roccia che cadeva ripida sopra un fiume dalle acque vorticose. La madre era paralitica, la figlia Gigia di vent’anni oziava tutto il giorno lagnandosi della propria miseria invece di tessere e occuparsi della madre e dei lavori domestici. Pietro, il fratellino, invece si alzava presto per andare a lavorare. Pietro, oltre a sostenere la famiglia, portava anche un sorriso e speranza alla sua povera madre. Così le giornate erano tutte uguali e la madre cercava di far lavorare la figlia ma non c’era verso, lei non ne voleva sapere perché tanto “non gli avrebbe sollevati dalla miseria”. La madre allora guardava verso una mensola su cui c’era una Madonnina di terracotta, una statuetta bianca e azzurra con le mani giunte e un dolce sorriso di pietà. E la pregava. Una sera Pietro non tornò a casa e Gigia lo cercò per tutta la notte chiamandolo, mentre la madre la implorava di restare a casa con lei a pregare la Madonnina. Quando tornò giorno, Gigia disse alla madre che andava nel bosco a cercare qualcosa da mangiare. La povera donna si sentiva morire e così pregò la Madonnina di farle vedere i suoi figli. La Madonnina d’un tratto apparve, accarezzandola con dolcezza e dandole conforto. In quel momento da fuori si sentirono dei terribili ululati e la donna pregò la Madonnina di soccorrere i suoi figli, ma la Madonnina la rassicurò dicendole che stavano bene e che avrebbe curato lei. La madre si addormentò e quando si svegliò il giorno era arrivato e con esso anche i suoi due figli. Pietro raccontò che era stato assalito da due lupi ma riuscì a salvarsi, in quel momento vide Gigia e i lupi andare verso casa loro. Videro i lupi davanti all’uscio andarsene all’improvviso. La madre allora gli disse della Madonnina, che nel frattempo si era rimessa su un altro scaffale, e i due fratelli si inginocchiarono davanti alla statua e la ringraziarono per tutto. Gigia promise che avrebbe iniziato a lavorare e a darsi da fare con il telaio, facendo così felice la madre. Loro madre disse che l’avrebbe aiutata anche lei, i due figli allora si girarono e videro la donna, un attimo prima paralitica, muoversi da sola dopo tanto tempo inferma.”



Chiesa di S. Maria del Ponte o anche chiamata Santa Maria di Costantinopoli a Marsiconuovo (prov. di Potenza)


Sul letto del fiume Agri, a circa un chilometro da Marsiconuovo, sorge il Santuario di Santa Maria di Costantinopoli. L’edificio sacro è fuori del paese (presso un antico ponte sul fiume Agri) e risale al 1593. Fu voluto dall’”Universitas Marsicense”. Conserva al suo interno un pregevole altare a baldacchino con la volta affrescata tra il Seicento e il Settecento e un affresco raffigurante l’Incoronazione della Vergine, tra Angeli e Santi. Esternamente è da notare il portale in pietra decorata, opera di scalpellini locali. La chiesa è stata eretta su un'altra già preesistente. Si presenta con la facciata principale molto lineare: l'unico elemento architettonico è rappresentato dal portale in pietra sormontato da una grande finestra, che, insieme alle altre sei finestre laterali, dà luce al Santuario. L'impianto interno è ad aula unica e presenta la zona del presbiterio rialzata rispetto alla navata. Sulle parete vi sono pilastri ad arco. Oggetto di culto è una statua lignea che raffigura la Madonna a busto intero, che regge il Bambino Gesù con le mani alzate in atto di benedizione. La scultura emerge dalle nuvole su un gruppo di case. Il vero oggetto di culto . però, è un dipinto che si conserva in una nicchia della chiesa, nella parte più antica e su questo dipinto si racconta... Viveva a Marsico un vecchio cieco ed infelice perché il suo unico figlio era partito e non si sapeva più nulla di esso. Una notte, mentre dormiva sentì una voce che gli diceva di chiedere aiuto alla Vergine, la cui immagine giaceva tra rovi e spine presso il ponte del fiume Agri. Con un amico, il giorno dopo, l'uomo si recò sul luogo indicato dalla voce e con le mani cominciò a scavare tra le spine, ma appena toccò il muro del ponte riebbe la vista e proprio nello stesso istante arrivò il figlio. La notizia del miracolo si sparse in un baleno e molti furono i prodigi compiuti dalla Vergine, tanto che in quel luogo si costruì la chiesa e l'Immagine sulla parete del ponte rimasi inglobata in essa. Il martedì dopo Pentecoste la mattina la statua, in processione viene portata, dal Santuario al paese ed il pomeriggio, sempre in processione viene riportata nel Santuario montano.



Potenza, i turchi, San Gerardo, la iàccara e i catari.


Parate e rievocazioni storiche in onore del Santo Patrono della Città di Potenza Le parate e le rievocazioni storiche del giorno 29 maggio, in occasione della commemorazione di San Gerardo, patrono della città di Potenza, prevedono tre ambientazioni che vanno a rappresentare tre periodi storici ben precisi, e cioè il XIX, il XVI e il XII secolo. Il primo ambiente fa riferimento ad una nota descrizione che Raffaele Riviello riporta in un suo libro dedicato alle tradizioni del popolo potentino: in essa, il Riviello racconta non solo il momento della parata cosiddetta dei Turchi ma anche tutto il clima di festa e di preparazione che precede la stessa parata. Per questo motivo, si è pensato di organizzare anche un quadro descrittivo di questa ambientazione che precederà temporalmente le parate e rievocazioni della serata: esso sarà messo in scena nel primo pomeriggio del giorno 29 maggio, a Piazza Matteotti, la vecchia Piazza Sedile, scena che riproporrà il popolo festante in attesa che, con travestimenti e con l’uso di trucco, si accinge a festeggiare il Santo Patrono. Il secondo ambiente fa riferimento ad un documento storico del 1578 nel quale si descrive il popolo potentino che vestito alla turchesca e alla moresca accoglie in città il nuovo conte Alfonso de Guevara: per preparare questa quadro si è salvaguardata la tradizione della parata e si è inserita la rappresentazione di San Gerardo bambino che su una barca salva la città dall’invasione dei Turchi. Infine, il terzo ambiente vuole rappresentare il momento di devozione verso “ u prut’tor ” e mettere in evidenza la religiosità dei potentini durante il XII secolo quando San Gerardo, dopo il suo vescovado durato dal 1111 al 1119, venne santificato vox populi divenendo Santo Patrono della città di Potenza. Ogni quadro sarà preceduto da banditori che racconteranno agli spettatori tutte le scene con dovizia di particolari. La parata, al contrario degli anni precedenti, seguirà un percorso inverso poiché partirà dal Campo Sportivo Viviani per giungere nel centro storico, attraverso Porta Salza e, si concluderà a Largo Duomo. Così Raffaele Riviello, nel 1893, in Ricordi e note su costumanze, vita e pregiudizi del Popolo Potentino, descrive il rito della iàccara: “Nella vigilia, in sull’ora del vespero, si portavano in città, a suono di pifferi, di tamburi, o di bande, le iaccare (fiaccate) , cioè grandi falò, fatti di cannucce affasciate attorno ad una trave sottile e lunghissima, per divozione di qualche bracciale possidente, di proprietario vanitoso, o per incarico dei Procuratori della festa. Il trasporto di una iaccara formava una vera scena di brio e di festa per plebe e per monelli. Molte coppie di contadini giovani e robusti la portano sulle spalle. Sopra vi sta uno, vestito a foggia di buffo o di pagliaccio, che tenendosi diritto ad un reticolato, o disegno di cannucce, su cui è posta tra foglie e fiori la fiura, o immagine di S. Gerardo, grida, declama, gesticola e dice a sproposito, eccitando la gente a guardare e ridere, per accrescere l’allegrezza della festa. E la gente si affolla per vedere, fa largo, e ride tutta contenta. Di tanto in tanto ì portatori si danno la voce per regolare le forze e i passi, si fermano per ripigliare un po’ di lena ed asciugarsi il sudore con una tracannata di vino; giacchè vi è sempre chi li accompagna col fiasco e li aiuta a bere, senza farli muovere di posto. Come si giunge al luogo, ove è il fosso per situare la iaccara, la scena muta per folla dì curiosi, rozzo apparato di meccanica e timore di disgrazia. Si attaccano funi, si preparano scale ed altri puntelli; ed al comando chi si affatica di braccia e di schiena, chi adatta scale e grossi pali per leva e sostegno, e citi da finestre e da balconi tira o tien ferme le funi. E ad ogni comando si raddoppiano gli sforzi, si fa sosta e silenzio, secondo che nell’alzarsi lentamente la iaccara il lavoro procede con accordo di forze, o presenta difficoltà e pericolo. Appena si vede alzata, prorompe un grido di gioia; tamburi e bande suonano a frastuono, e la gente con viva compiacenza guarda di quanto la iaccara supera in altezza le case vicine. Le iaccare si innalzavano nei luoghi più larghi; in Piazza, innanzi alla Chiesa di S. Gerardo, avanti a lu Palazz’ di lu Marchese, (oggi Liceo), a Portasalza, di fronte a lu castiedd (Ospedale S. Carlo). Per accenderle, la vigilia a sera, bisognava arrampicarsi sino alla cima, e non senza fatica. Queste grandi fiaccole erano i fari fiammeggianti della festa per farli vedere da lontano. Ardevano tutta la notte, e illuminavano a giorno tutto il vicinato, la cui gente godeva e si divertiva a quella vista.” Questa la parata. Ma perchè san Gerardo e i turchi? Forse perchè…la vulgata cittadina fa risalire la rappresentazione allegorica alla pretesa invasione di Potenza da parte di un esercito turco, il quale avrebbe risalito il fiume Basento fino a Potenza(???). I cittadini, quindi, impotenti dinanzi alla organizzazione militare degli invasori, si sarebbero rivolti al vescovo, Gerardo La Porta, e questi, invocando una schiera di angeli guerrieri, avrebbe compiuto il miracolo di liberare la città dai suoi nemici. Tuttavia, è improbabile che, in tempi geologicamente recenti, il fiume Basento fosse navigabile, inoltre non è storicamente riscontrata un’invasione turca riconducibile al periodo di S. Gerardo la Porta. Gerardo la Porta, già vescovo di Piacenza, verosimilmente ha cominciato ad essere venerato come santo protettore della città di Potenza (il protettore precedente era S. Oronzio, martire), dopo esservi stato mandato dalla Santa Sede per contrastare la diffusione dell’eresia catara. Difatti, è certo che i Catari, nei primi decenni del XII secolo, estendevano le loro ultime propaggini nell’Italia del Sud (pur avendo le loro maggiori comunità nel nord Italia e Oltralpe). È plausibile che tali comunità spirituali, che assumevano la forma di forti ed influenti clan religiosi, abbiano incontrato la ferma opposizione da parte delle gerarchie cattoliche ortodosse, e che Gerardo la Porta, vescovo di Piacenza, abbia ingaggiato con loro uno scontro politico e teologico, fino alla neutralizzarne l’influenza presso la borghesia potentina. Da allora probabilmente la cittadinanza conservò con devozione la memoria del “liberatore”, attribuendo col tempo ai “Turchi”, il nemico per antonomasia delle popolazioni meridionali dei secoli successivi, il burrascoso evento e trasformandolo in una fantasiosa invasione armata. E forse c’entra qualcosa la battaglia di Lepanto (1571) e l’arrivo del nuovo signore Guevara in città?



Muro Lucano: Giovanna, Napoli e l’ovo magico.


Il 16 gennaio 1343 muore Roberto, che la tradizione popolare volle definire “il Saggio”, e quasi come sempre accade nei corsi e ricorsi della storia, cominciò per la dinastia una serie di grossi guai. Gli successe, infatti, la nipote Giovanna, salita al trono all’età di sei anni. Con il passare degli anni si dimostrò una donna alquanto frivola e poco affidabile. Per volere del nonno, aveva sposato Andrea d’Angiò, fratello del re d’Ungheria. Il principe consorte tuttavia dopo pochissimi anni venne trovato assassinato e presto i sospetti caddero sulla regina e sul di lei amante Enrico Caracciolo. Questi fatti, truci ed inquietanti gettarono la popolazione nel panico e nello sconforto,e fu così che la rivoltà popolare montò facilmente e costrinse la regina a rifugiarsi in Castel dell’Ovo. A questa prima sommossa ne seguì un’altra e sempre per lo stesso motivo, si verificò circa due anni dopo. Questa volta però la rivolta era guidata da Tommaso de Jaca, che fu ucciso dallo stesso Enrico Caracciolo. La morte del principe Andrea aveva turbato gli animi d’- oltralpe ed in particolare del fratello che era re d’Ungheria. Questi preparata un’armata scese in Italia e mosse alla volta di Napoli per vendicare l’assassinio. Entrato in città tuttavia, con l’intento di catturare e punire Giovanna, trovo la reggia vuota. L’astuta regina prevedendo le ire del cognato aveva lasciato la città e si era rifugiata in Francia. Padrone incontrastato della città i re ungherese pretese dai napoletani un pesante onere in danaro. Ma la rivolta pronta della cittadinanza fu tale da ridurre l’ungherese a più miti consigli. Nello stesso periodo a Napoli scoppiò la peste e fu così che il re ungherese con le sue truppe decimate fece rientro in patria lasciando la città in uno stato di completo abbandono ed in preda a una malattia che fece migliaia di vittime. Ma appena la peste terminò Giovanna volle riprendere il suo posto sul trono. Ma i guai non erano terminati. Nel 1349 Napoli e la cinta vesuviana fu scossa da un devastante terremoto. E mentre i napoletani stavano terminando di leccarsi le ferite per questi accadimenti, al re ungherese si riaccesero le voglie di riappropriarsi della città nel 1350. Nel 1362 una nuova epidemia di peste spazzò via altre centinaia di napoletani e nel 1370 poi, vi fu un grande sommovimento di folla provocato dalla notizia, velocemente diffusasi da un capo all’altro della città, della presunta rottura dell’ «ovo magico» che, malgrado ogni smentita, si supponeva custodito nei sotterranei di Castel dell’Ovo. Questa era una leggenda, tramandata da secoli ed alla quale i napoletani erano molto affezionati sia per retaggi scaramantici che per conoscenze antiche. Questa leggenda che affondava le radici nella mitologia, nella magia e che aveva come “testimone” niente meno che il grande Virgilio vedeva l’uovo al centro dell’universo e dell’umanità tutta della popolazione. Si raccontava inoltre che quando l’uovo si fosse rotto, anche la città si sarebbe disfatta, distrutta, dissolta. Fu in quel momento che Giovanna dovette intervenire personalmente giurando pubblicamente davanti al popolo che l’uovo era intatto e che lei stessa lo custodiva. Da questa leggenda deriva il nome del castello che ancora oggi porta quell’appellativo. Giovanna regnò a Napoli tra il fasto, la ricchezza e la grande corte anch’essa dedita al lusso. Un tal regno che fortemente contrastava con i suoi predecessori non poteva che terminare in un disastro. Il suo regno infatti coincise con un evento religioso catastrofico per la Chiesa: uno scisma. E la regina, mal consigliata volle appoggiare la causa dell’ antipapa Clemente VII che si contrapponeva al Papa Urbano VI (napoletano di origini). Questo le meritò le ire del popolo e della corte. L’ultimo fatale errore della sua carriera reale le venne direttamente dai rami collaterali della sua dinastia: i Durazzo. Tra questi il nipote Carlo impossessatosi di parte delle truppe e avendole coinvolte in una azione diretta alla corona, la regina si rifugiò nel castello di Muro Lucano che secondo la tradizione popolare, era pieno di trabocchetti e paurosi sotterranei in cui la regina faceva sparire i suoi amanti. Quì la regina venne uccisa.Era il 12 maggio del 1382.



Bernalda e le storie di Palazzo Ammicc


Questa leggenda narra di una famiglia ricca che abitava in un grande palazzo del centro storico di Bernalda. Nel palazzo ci vivevano altre famiglie,al piano terra c’era un grande atrio dove i bambini potevano giocare e dove gli abitanti dello stesso palazzo, per lo più contadini, vendevano ciò che coltivavano nelle loro campagne. Il proprietario non faceva pagare il fitto ma in cambio voleva che gli inquilini dell’edificio si occupassero dei suoi terreni. Prima di morire nascose tutto il suo oro in un posto segreto del palazzo. Si racconta che, per avere questo tesoro, nel quale c’era anche una chioccia d’ora a dimensione naturale con tredici pulcini, si dovesse uccidere un bimbo non ancora battezzato e sacrificarlo. Ancora oggi nessuno è riuscito a trovare questo tesoro. Questo palazzo, tutt’ora abitato, è chiamato Palazz Ammicc perché la sua padrona portava il nome di Lalla Micca*. Si dice che le famiglie di questo palazzo avessero più figli femmine che maschi, infatti si diceva: palazz ammic femmn assje uommn picc. La signora, la padrone del palazzo, aveva tre figli, una femmina e due maschi. Essendo una persona benestante, tutti i giorni si recavano a palazzo alcune serve per pettinarla e aiutarla nelle faccende di casa. Un giorno una zingara che si era accampata nella valle del fiume Basento ai piedi del paese, passò da quelle parti e sapendo che lì era nascosto un tesoro, tentò di intrufolarsi. Entrata con la scusa di pettinare i capelli alla signora entrò nel palazzo vide la bella figlia della padrona. La rapì e la portò con sé fino a farle dimenticare la sua famiglia. La padrona del palazzo attese per anni, invano, il ritorno della figlia. Un giorno gli zingari tornarono ad accamparsi nella valle del Basento, proprio nei pressi di Bernalda. La fanciulla rapita era ormai diventata donna e mentre camminava udì il suono delle campane della chiesa Madre. La ragazza incominciò a chiedere insistentemente per chi quelle campane suonassero a lutto. Doveva essere per forza una persona importante e gli zingari che avevano già saputo della morte della signora del palazzo Ammic le dissero la verità. Spinta e guidata dal sentimento, decise di recarsi in paese a far visita alla madre ormai morta. Gli zingari le diedero il permesso di andare in paese a patto che giurasse di ritornare, lei accettò e la accompagnarono fin sotto le mura del paese. Chiese ad una donna che cosa fosse successo e questa le raccontò ciò che era accaduto tanti anni prima e che talmente forte era stato il dolore di questa mamma che si era ammalata fino a morire. La fanciulla afflitta e addolorata, si recò al palazzo paterno dove viveva la sua famiglia per salutare un’ultima volta la salma della madre. Nessuno la riconobbe. Si chinò verso la bara di sua madre e pronunciò queste parole: “Signura mia signura, tu jer a pampn e ii jer l’uv, dnar n’ tniev senz misur ma nun ma saput ammuntuà la mia vntur” (signora , mia signora tu eri il tralcio e io ero l’uva , di denaro ne avevi senza misura, ma non hai saputo indovinare la mia ventura). Udite queste parole, i fratelli capirono che si trattava della sorella rapita anni addietro e la supplicarono di restare a palazzo, ma ella, memore della promessa fatta agli zingari,volle andar via. Un fratello la rincorse ma non riuscii a raggiungerla, si affacciò dalla finestra che dava nella valle, accecato dalla rabbia, le sparò dei colpi di fucile e la uccise, togliendola così agli zingari che l’avevano rapita. Oggi a palazzo Ammicche c’è una finestra murata che si affaccia sulla valle e la leggenda dice che lo spirito della signora è fuori da questa finestra che aspetta ancora la figlia. Dove la fanciulla fu uccisa è tutt’ora denminato “U cuozz d l zingr”. * Palazzo Ammicc deriverebbe dal nome della famiglia proprietaria, i Lambicco o i D’amico.



Alcune leggende del Natale in Lucania


La notte della vigilia di Natale...


La notte della vigilia di Natale una donna si recò alla fontana con il secchio per prendere l’acqua.Il mattino seguente al risveglio trovò una incredibile sorpresa, il secchio era pieno di olio e non di acqua. Il nonno, testimone di quel prodigio, prese a raccontare la leggenda di una povera mamma che alla vigilia di Natale voleva preparare le frittelle ai suoi sette figli, ma non aveva olio per friggerle. Si rivolse ai vicini e questi non vollero dargliene. La donna, mortificata, prese il secchio e andò alla fontana del paese per prendere l’acqua e con grande sorpresa il secchio si riempì di olio…..


Le nove portate alla Vigilia di Natale


La Vergine allattava il suo Bambino e di latte ne aveva tanto che quando Gesù smetteva di poppare, spesso il latte continuava a fluire. Avvenne un giorno che, per distrazione della Madonna, una goccia cadesse per terra. Una rondine, più affamata delle altre prese quella goccia di latte nel becco e stava per inghiottirla. Ma ci ripensò e decise di consegnarla al Signore Iddio, cui apparteneva. Il Signore Iddio ringraziò la rondine. Poi raccolse la goccia nel cavo della mano, ci soffiò su e la lanciò nel cielo. Ed ecco subito formarsi una grande striscia bianca. E la striscia bianca si prolungò, seguendo la corsa della goccia, per tutto l’inverno. Era come un gran fiume di latte, formato da infinite gocce che poi sono le stelle. Lungo questo fiume, che unisce la terra al cielo, camminavano le anime dei morti per il Paradiso. E alla vigilia di Natale, ogni tavola viene apparecchiata con nove portate, quante sono, secondo la leggenda, le case alle quali bussò la Madonna prima di trovare asilo.



Albano di Lucania e le sue storie


Piazza San Pietro


La Piazza San Pietro è tappezzata di ossa. Circa 40 anni fa, hanno trovato il corpo di una fanciulla avvolto in un abito bianco, ma soltanto un operaio è stato testimone di quella apparizione fugace. Aveva appena tolto il coperchio della bara quando gli apparve a suo dire una Santa come se fosse viva e vestita a festa. Un attimo dopo quell’essere soprannaturale si volatilizzò. E allo spettatore apparve soltanto un’esile striscia di polvere grigia. Ai bordi della cassa giacevano un pettine e una bambola.


La Roccia dell’Ischio


Si narra che la Roccia dell’Ischio, un monolitico distante 1 Km. dal paese, custodisca un vitello d’oro, monete e tanti gioielli. La porta della spelonca, invisibile per tutto l’anno, si apre nell’attimo della consacrazione dell’ostia durante la notte di Natale e rimane aperta fino all’alba. Chi desidera impossessarsi del tesoro, deve sacrificare al diavolo la vita di “un’anima innocente”. Senza l’uccisione di un bambino, chi entra, rimane imprigionato e viene inghiottito nelle viscere della terra.


Rocca del Cappello


Sulla sponda sinistra del fiume Basento all’altezza di Albano, sull’orlo di un precipizio di fronte alle Dolomiti Lucane, torreggia un immane monolitico in arenaria alto più di 10 mt., sulla cui sommità poggia un’enorme masso che dà l’idea di un enorme cappello di fungo ombrelliforme, dal quale il monolitico prende il nome di “ROCCA DEL CAPPELLO”. Questi massi erratici sono i segni imperituri della venerazione di sassi radicata nella coscienza religiosa umana sin dall’età preistorica. Sul lato sud-est del monolitico è inciso un cerchio con ai lati due brevi scanalature a destra. Nell’area circostante sono presenti alcune grotte e mura di contenimento a secco, un sentiero da località Monticello discende fino al monolitico. Percorrendo tale sentiero, sulla sinistra si nota un monolitico alto 7 mt. detto “ROCCA MOLARIA”, e su uno dei suoi gradini è stilizzato un simbolo che sembra un fiore a 4 petali o una palmetta. Lungo tutto il sentiero vi sono 5 coppie di vasche scavate nella roccia, ricavate su due livelli e comunicanti mediante un foro. Infine al lato S.E. della Rocca del Cappello è scolpito un grande volto umano e sul fianco di un altro spuntone in arenaria levigato è inciso un segno di croce latina. Presso la Rocca del Cappello è stato rinvenuto un monogramma inciso su una lastrina di pietra rossa, che potrebbe rappresentare il famoso “Nodo di Iside” (pezzo di stoffa annodato in modo particolare), che fu l’amuleto più diffuso tra gli antichi egizi.


La “Sedia del diavolo”


Ma ancora più inquietante è la “Sedia del diavolo” che si trova a metà strada tra la curva che gira attorno al Monticello e il fiume Basento ed è costituita da una panchina scavata in un grande monolito che visto frontalmente sembra il busto di un essere demoniaco completo di capo e copricapo. La panchina è stata ricavata sulla parete sud ovest a circa due metri dal suolo. Si può accedere a quest'ultima solo per mezzo di una lastra di pietra poggiata sulla parete rocciosa. Varie ipotesi sono state scartate intorno all'utilizzo della “Sedia”. Questa panca non può essere stata costruita come punto di vedetta per controllare il passaggio di nemici nel territorio in quanto esistono nei dintorni punti molto più comodi e con visibilità più ampia. Certo è che nessun pastore avrebbe costruito una panca per riposarsi a due metri dal suolo poichè vi sono nei dintorni panche naturali più facilmente accessibili. Inoltre neanche i fenomeni atmosferici possono aver contribuito alla sua creazione poiché avrebbero arrotondato la roccia mentre la panchina è molto ben squadrata. Si suppone che la “Sedia del diavolo” sia stata ricavata nella roccia per gli stessi obiettivi della “Rocca del cappello”, ovvero la venerazione degli astri per conquistare la benevolenza degli dei per ottenere i migliori risultati nel lavoro, nell'agricoltura e nella vita di tutti i giorni. Sul lato sud-est del monolito è scolpito un volto umano e nelle adiacenze, sul fianco di uno spuntone in arenaria ben levigato, è incisa una croce latina. Per quel che riguarda la croce latina, simbolo di Cristo, incisa sullo spuntone roccioso potrebbe far parte dell' attitudine dei cristiani di scongiurare, esorcizzare e risacralizzare i monoliti, le rocce e le strutture pagane. Con l'affermarsi del cristianesimo, l'area della “Rocca del cappello”, che secondo i sostenitori della nuova fede continuava ad emanare influssi di paganesimo, come tanti altri luoghi di culto pagano, venne “demonizzata” (lo prova la “Sedia del diavolo” appellativo dato alla panchina) e, di conseguenza, abbandonata per sempre scomparendo dalla memoria storica degli uomini.



Il castello di Cancellara e le sue storie


Alcuni anziani raccontano che questo castello fosse più grande dell’attuale, che ad esso si univa una cinta muraria che racchiudeva il paese e che riusciva a difenderlo; non è inusuale che si sia conservato solo la dimora principale, mentre le altre superfici furono adibite ad abitazioni private. Si racconta che quando fu costruito il castello, l’architetto, ignoto, volle costruire ben 365 stanze, tante quanti i giorni dell’anno; forse perché così il barone poteva goderne la luce da ogni angolo. A proposito della luce vi è un aneddoto molto interessante; pare che ancora oggi, qualcuno conosce una stanza del castello dove non compare per niente la luce. Molti hanno tentato di illuminarla senza riuscirci. Altra leggenda è quella della stanza del tesoro: pare che ci fosse una stanza contenente un tesoro il cui pezzo pregiato fosse una chioccia d’ oro con i pulcini anch’ essi dorati. Come ogni castello anche quello di Cancellara pare avesse un passaggio segreto che sbucasse fuori dal centro abitato, si presuppone vicino la fiumara.



La contessa Mabiha, i Saraceni e il castello di Tricarico.


L’alta torre cilindrica del centro storico di Tricarico si eleva a più di 27 metri ed tutta coronata di archetti pensili e circondata alla base da scalette adatte ad una pronta difesa e ad un isolamento più pronto e più rapido. Verso il 980, vennero in Tricarico i Saraceni; entrarono dalla parte bassa del paese, che non era difesa dalle mura di cinta, come gli altri rioni. Poichè era loro intenzione fermarsi, pensarono subito a costruire, in quei luoghi dove mancava, mura e fortilizi. Iniziarono così a sorgere quelle che ancora oggi sono chiamate porta e torre "Rabatana". Si dice che per la costruzione furono costretti a lavorare i cittadini stessi di Tricarico, i quali erano trattati del tutto come schiavi; si racconta, inoltre, che durante i lavori i Saraceni, che si erano già bene annidati nel castello di Pietrapertosa, assalivano le popolazioni dei centri vicini, catturavano gli uomini validi e ne assegnavano trenta al giorno per la costruzione delle nuova mura, mentre le donne venivano violentate dopo grandi e fastosi pranzi; ogni sera, quindi, Tricarico si presentava, ai pellegrini diretti a Matera e Bari, come luogo di perdizione pagano. Una leggenda racconta che lì visse, sognò e mori la bionda Mabiha, che, uscita dalla turrita Ceccano, era venuta, intorno al 1157, sposa al conte Giacomo Sanseverino. Dalla valle del Sacco, con un seguito di cavalieri e di armati, per quindici giorni cavalcò da San Germano (Montecassino) a Napoli e a Potenza, e seguendo l’Appia, per il passo appenninico del Marmo, era giunta a Tricarico. Qui ascoltava le canzoni degli zingari e dei viandanti, che ricordavano la patria lontana. Né tornò più alla sua Ceccano tutta assorta nei pensieri del marito ghibellino, morto in una imprecisata battaglia contro i Bizantini sul Basento.



Brienza: il castello Caracciolo e la leggenda di Bianca


A Brienza (PZ) si racconta che nel castello che domina il borgo, tra i tanti ospiti che qui hanno trovato accoglienza e animato le sue stanze e i suoi saloni , una in particolare abbia lasciato un segno indelebile. Un segno rimasto vivo tra le mura del castello che sussurrano storie di uomini valorosi e di dame bellissime. Su tutte risuona la storia dei Bianca da Brienza. In questo castello, verso la metà del 1300, pare, vi vivesse una donna di nome Bianca, bella e lussuosa. Ella era solita dare delle feste alle quali prendeva parte vestita dai soli gioielli di cui era fiera; intratteneva i suoi ospiti danzando languidamente e tuffandosi in un mastello pieno di monete d’oro. Si narra che il suo tesoro fosse custodito in una stanza segreta del castello che possedeva 365 stanze, tanti quanti i giorni dell’anno. La stanza in cui il tesoro fosse nascosto è la 366, una stanza segreta. Tanto segrata che i soli a conoscerne il tragitto fossero Bianca e la sua fedele ancella. Ma il destino aveva in serbo per lei una percorso diverso dal lusso e dagli agi del castello di Brienza. Durante un viaggio verso Amantea fu catturata dai pirati e portata ad Algeri; qui un pascià se ne invaghì e la volle con sè. Da quel momento non si seppe più nulla di lei e del suo tesoro. Tutt’oggi la 366 stanza non è stata scoperta e, secondo la leggenda, chi troverà questa stanza diventerà ricco e padrone del tesoro.



Il castello di Marsiconuovo (PZ)


Su una piccola collina in Contrada San Giovanni di Marsiconuovo, sono visibili pochi ruderi di un antico castello, chiamato castello di Marsico, chiamato in dialetto locale semplicemente "u' castiedd". In questo Castello si svolse la mitica leggenda di Bianca Capano, che, animata da onesti sentimenti, la vigilia delle sue nozze, pugnalo' il Principe Don Ferrante Sanseverino, suo padrone per l' efferrato "jus primae noctis". Tutto il popolo l' acclamo' e la sostenne con la gioia di aver scritto fine ad un cosi' atroce destino, che attendeva le giovani spose. La legge "jus primae noctis" imponeva che la prima notte di nozze, le giovani spose dovevano trascorrerla a letto con il principe in questo castello. Da molti documenti non sarebbe un vero castello, ma piuttosto di una rocchetta, cioe' un posto di avanguardia. La collina del Castello era di proprieta' fino al 1960 del marchese Francesco Navarra Viggiani, che la vendette ad un cittadino privato. Meta' della collina sono oggi erosi dall' uomo, perche' su questo fianco della collina venivano estratte pietre per costruzioni e sabbia. Questo fianco della collina veniva chiamato "La Cava". Da questo fianco vi sono alcune grotte, che secondo la leggenda erano le uscite di sicurezza del Castello. In fotografie antecedenti gli anni cinquanta le rovine del castello erano molte piu' abbondanti, come mura piu' alte e si scorge in qualche vecchia foto un arco e qualche finestra, probabilmente cadute dopo qualche ennesima scossa di terremoto oppure le pietre sono servite come materiale da costruzione per qualche edificio nei paraggi. Il vecchio castello di Marsico si trovava invece sulla collina piu' alta del paese, sulla collina della Civita. Nel 1330 per volonta' di Enrico Sanseverino sulle rovine del castello sulla collina della Civita fu eretto il convento francescano. Il convento francescano sulla collina della Civita esiste ancor oggi, in completo abbandono e in desolate condizioni. Sul portale si possono ammirare magnifici bassorilievi del trecento. Il Campanile di San Francesco, una bellissima torre a base quadrata domina ancor oggi il paese di Marsiconuovo. Fino al 1980 questo convento era abitato dalla famiglia del carcieriere di Marsico, perche' fino a pochi anni apprima per circa un centinaio di anni, il convento era stato modificato in carcere e le celle dei monaci in sicure prigioni dei carcerati. Negli anni della seconda guerra mondiale il carcere era sovraffolato di detenuti. Il Campanile di San Francesco fungeva da Torre di Guardia, perche' da qui la vista dominava tutta la Val D' Agri. A Marsiconuovo, sempre sulla collina della Civita, qualche centinaio di metri piu' in basso del Castello, c' e' ancora il Palazzo Santalucia, edificato nel secolo scorso sulle rovine del cinquecentesco palazzo Tafuri, appartenuto al magnifico giuriconsulto Alessandro Capano (1520 - 1594), padre della leggendaria Bianca Capano, menzionata all' inizio di questo testo.



San Gianuario a Marsiconuovo provincia di Potenza


La leggenda vuole che, nel III sec. d.C., Gianuario, Vescovo di Cartagine, arrivasse in Lucania e, precisamente, a Potenza, per predicare il Vangelo. Ucciso nel bosco dell’Arioso dai soldati di Leonzio, Governatore romano della Lucania, che non gradiva la sua opera di evangelizzazione, venne sepolto sotto un faggio. Verso la metà del IX sec. d.C., una donna marsicana, di nome Susanna, per tre notti di seguito, sognò Gianuario che la pregava di recarsi dal Vescovo Grimaldo e di disseppellire il suo corpo, portandolo a Marsico. Il corpo del Vescovo fu rinvenuto nel luogo sognato dalla donna. Insorse però una disputa tra Marsicani e Potentini circa il suo possesso. Essa si risolse a favore dei primi, grazie alla coppia di buoi che lo trasportò verso Marsico, fermandosi nei pressi dell’Abbazia di S. Stefano. Era il 26 Agosto. Nel 1826 il Vescovo Marolda fece edificare in suo onore una splenda chiesa.



Stracciamento del carro a Matera A Matera il 2 luglio alla fine della processione in onore di Maria Santissima della Bruna, la folla dà l'assalto al suggestivo carro di cartapesta utilizzato per trasportare la statua e lo riduce in pezzi. Dopo averlo distrutto, i partecipanti raccolgono e conservano i pezzi, che vengono considerati porta fortuna.



Il rito di Accettura


Ad Accettura (MT), ancora oggi si pratica un antichissimo rito nuziale propiziatorio. Nel giorno dell'Ascensione, taglialegna e boscaioli vanno alla ricerca dell'albero più alto e dritto di Montepiano, perché diventi l'albero di "maggio". Analogamente, il giorno della Pentecoste, i giovani di Gallipoli scandagliano i boschi alla ricerca della "cima", un agrifoglio spinoso e ramificato, considerato la sposa del "maggio". Così, in questi giorni, vengono intonati poetici canti d'amore e di corteggiamento, per accompagnare l'incontro tra i due sposi. Il martedì successivo, il maggio viene trasportano da alcuni buoi, mentre la cima viene portata a spalla, preceduta da una lunga fila di costruzioni votive, le "cende". Dopo che la cima è innestata sul maggio, questo viene eretto nell'imponenza dei suoi 35 metri. Come per incanto, la cima fruttifica rapidamente, e gli abitanti iniziano a sparare sui cartellini che vi hanno appeso (un tempo vi si appendevano animali vivi!). L'antica usanza della scalata del maggio, prova di forza e rito di passaggio all'età adulta è andata persa nel tempo, ma la festa mantiene comunque il suggestivo sapore di rituali di fecondazione della natura.



Il monachicchio


Secondo la tradizione il Monachicchio era lo spirito di un bambino morto prima di ricevere il battesimo. Uno spiritello d’aspetto gentile, bello di viso, con in testa un berrettino di color rosso, “u cuppulicchii” (il cappellino). Appariva per lo più ai bambini come lui, e con questi trascorreva molto tempo a giocare, a ridere e a rincorrersi. Quest’ultima cosa era la più desiderata da lui, in quanto sapeva che i compagni di gioco facevano a gara per toglierli “u cuppulicchii” . Chi riusciva, infatti, a strapparglielo dalla testa, si metteva a raccogliere monetine d’oro che copiosamente cadevano a terra con un caratteristico tintinnio. Il Monachicchio, al contrario degli spiriti malefici, si mostrava ai bambini sia di giorno che di notte. La sua presenza non dava mai fastidio, anzi faceva piacere perché si presentava sotto le sembianze di un folletto ed era, quindi, molto vivace, scherzoso e giocherellone. I suoi lazzi preferiti erano: togliere le coperte dal letto, fare il solletico ai piedi e sussurrare dolci parole negli orecchi delle ragazzette. A queste, specie se erano paffutelle, leccava delicatamente le guance. Molte volte si posava come un incubo sul corpo delle persone, oppure s’introduceva nel letto per sollevare il cuscino dalla testa e soffiare nelle orecchie dei dormienti. Spesso si divertiva, durante la notte, ad annodare i peli della coda di asini e muli e la criniera dei cavalli, sotto la cui pancia si faceva trovare all’alba, quando i contadini si levavano dal letto. La mattina, mentre i padroni degli animali erano intenti allo scioglimento dei nodi, il Monachicchio assisteva divertito al paziente lavoro e rideva a crepapelle se non riuscivano a slegarli. Poi, tutto soddisfatto, battendo le mani, spariva nel suo fantastico mondo ove abitava in una grotta ricca di tesori. Carlo Levi nel suo libro “Cristo si è fermato ad Eboli” lo descrive così: «I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, aerei, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti. Fanno il solletico sotto i piedi agli uomini addormentati, tirano via le lenzuola dei letti, buttano sabbia negli occhi, rovesciano bicchieri pieni di vino, si nascondono nelle correnti d’aria e fanno volare le carte e cadere i panni stesi in modo che si insudicino, tolgono la sedia di sotto alla donne sedute, nascondono gli oggetti nei luoghi più impensati, fanno cagliare il acre, danno pizzicotti, tirano i capelli, pungono e fischiano come zanzare. Ma sono innocenti: i loro malanni non sono mai seri, hanno sempre l’aspetto di un gioco, e, per quanto fastidiosi, non ne nasce mai nulla di grave. Il loro carattere è una saltellante e giocosa bizzarria, e sono quasi inafferrabili. Portano in capo un cappuccio rosso più grande di loro: e guai se lo perdono. Tutta la loro allegria sparisce ed essi non cessano di piangere e di desolarsi finché non l’abbiano ritrovato. Il solo modo di difendersi dai loro scherzi è appunto di cercarli di afferrarli per il cappuccio: se tu riesci a prenderglielo, il povero monachicchio scappucciato ti si butterà ai piedi, in lacrime, scongiurando di restituirglielo. Ora i monachicchi, sotto i loro estri e la loro giocondità infantile, nascondono una grande sapienza: essi conoscono tutto quello che c’è sottoterra, sanno i luoghi nascosti dei tesori. Per riavere il suo cappuccio rosso, senza cui non può vivere, il monachicchio ti prometterà di svelarti il nascondiglio di un tesoro. Ma tu non devi desistere fino a che non ti abbia accontentato; finché il cappuccio è nelle tue mani, il monachicchio ti servirà. Ma appena riavrà il suo prezioso copricapo, fuggirà con un gran balzo, facendo sberleffi e salti di gioia, e non manterrà la sua promessa».



Il Marranghino


Il Marranghino è un personaggio immaginario del folklore lucano. Il suo mito condivide tratti comuni con quello del Monachicchio, ed è diffuso particolarmente nella provincia di Matera. Nel dialetto di taluni paesi il termine marranghino si riferisce a un particolare tipo di ragno dalle zampe e corpo sottili. Probabilmente anche il Marranghino nasce dalle tradizioni religiose pagane legate ai Lari e ai Penati. Secondo le leggende tradizionali, il Marranghino si presenta con un aspetto goffo: particolarmente basso di statura, con i mustacchi, un grosso pancione e una grande testa. Il suo aspetto bonario lo rende talmente simpatico che anche quando si diverte a fare dei piccoli rumori in casa o a muovere il letto ai dormienti, la sua presenza non infastisce nessuno. Il Marranghino non viene descritto come un essere cattivo, ma piuttosto come uno spiritello burlone che si diverte a scherzare, ridere e giocare con le persone, senza causare danni. Nelle leggende e nelle fiabe tradizionali, si diverte in modo particolare a nascondere gli altrezzi contadini durante il lavoro agricolo.



Vaglio di Basilicata: la leggenda di san Faustino


San Faustino era figlio di un turco. Egli voleva essere cristiano, ma il padre non voleva perché era pagano. Allora lo portò in un bosco e gli disse: “Vuoi essere cristiano o pagano?”. S. Faustino disse: “Cristiano”. Il padre, allora, l’uccise e lo seppellì in un fosso. Dopo tanto tempo, un mercante con il carro, passò di lì e vide un giglio. Questo mercante disse che non aveva mai visto un fiore così bello e lo raccolse. Il giglio non se ne veniva, così il mercante si mise a scavare e trovò S. Faustino. Le persone di tutti i paesi accorsero perché se lo volevano portare al loro paese. S. Faustino diventava molto pesante. Quando gli abitanti di Vaglio provarono a prenderlo, la cassa del santo diventò molto leggera. S. Faustino arrivò così a Vaglio e tutti lo andavano a vedere. Uno dei Catalano stava mangiando e non voleva andare. Questo signore disse: “Se S. Faustino fosse stato santo, sarebbe rimasto a casa sua”. Tutti accorsero a vederlo e a questo signore rimase la forchetta con la carne in gola. Quando anch’egli arrivò da S. Faustino, la forchetta si tolse da sola dalla gola.



Montalbano jonico: il palazzo del Cavaliere


Nel Settecento, Montalbano vantava già, ad esempio, il cosiddetto “Palazzo Cavaliere”, nel cui nome sta forse una delle cause delle frane che portarono via il castello. L’edificio deve il suo nome ad una leggenda causata dalla suggestione popolare. Innanzitutto è bene precisare che sorge anch’esso sul ciglio del burrone di argilla su cui il paese si affaccia, a breve distanza dal luogo dove era il castello e dirimpetto all’ “Osannale”, piazzetta dove ancora oggi avviene la benedizione delle palme la domenica prima di Pasqua, ma che doveva essere un torrione della seconda cinta muraria. Orbene, la leggenda vuole che di notte, nell’ampio cortile interno del palazzo (dove una volta soggiornò Zanardelli, come si evince da un’iscrizione postavi), compaia la terribile figura di un cavaliere senza testa, e lo scalpitio degli zoccoli del suo destriero pare abbia terrorizzato per generazioni i sonni degli abitanti. I più coraggiosi di loro raccontavano di essersi affacciati, di notte, nel cortile, e di averlo visto, il fantomatico milite, aggirarsi tetro su di un destriero ora bianco, ora nero. L’avevan sognato, buoni uomini, o la suggestione della notte aveva causato loro l’agghiacciante visione, dato che lo scalpitio era dovuto alle gocce che, condensatesi, cadevano nella cisterna sottostante il palazzo, rimbombando nel silenzio notturno, fino a sembrare gli zoccoli d’un cavallo. Nulla vieta di pensare che gli scoli di queste cisterne andassero a finire proprio vicino alla “tempa del diavolo”, erodendola poco a poco negli anni, fino a causar la rovina del castello, andato a finire inesorabilmente giù, nei calanchi.



Tursi e il palazzo dei diavoli


Il Palazzo del Barone Brancalasso a Tursi, detto semplicemente ” palazzo del Barone “, al centro di piazza Plebiscito, che secondo la leggenda fu costruito in una sola notte da diavoli aiutati dagli spiriti delle tenebre i quali, poi, non potendo tornare in tempo nel loro regno, si sono materializzati sul tetto dell’edificio. In realtà in una notte venne delimitato il perimetro del palazzo alla cui costruzione si opponevano i proprietari dei fondi vicini. La via che adesso separa il palazzo Brancalasso dal palazzo Pierro è detta ” strittue du Barone “, stretto del Barone. Le tre statue simboleggiano invece la giustizia, la pace, la carità, a testimonianza di numerose persone di cultura nella famiglia Brancalasso.



Stigliano e la leggenda del drago:


Sulla memorabile e affascinante leggenda di un terribile drago che nei tempi passati terrorizzava le popolazioni delle convalli dell’Agri e del Sauro, Salvatore Agneta di Stigliano, scrive un interessante saggio dal titolo Il conte e la leggenda del drago. Uno studio sospeso tra storia e tradizione, tra leggenda e realtà. Il mito del Drago affascinò persino Levi durante il confino ad Aliano, che volle dedicare a questa storia, due pagine del Cristo si è fermato a Eboli. In un libretto di 60 pagine, intriso di vicende e fatti storici, che si snodano in tutto il corso del basso medioevo, fino all’inizio del 1500, Salvatore Agneta cerca di ricostruire, tra memoria, fantasia popolare e documentazione scritta, le origini, i luoghi e i tempi di questo mito. I riferimenti storici sono tanti, oltre a Levi, anche Panetti, Molfese, Branco. Una serie di ricognizioni sul campo, di richiami e di rimandi poliedrici e sfaccettati, hanno consentito all’autore di giungere ad una esauriente e razionale ipotesi di questo mito. Riporto di seguito due stralci conclusivi del saggio: “Una versione tramandata oralmente vuole che il drago vivesse in un lago sul monte Serra, presso Stigliano, e da lì si spostasse alla ricerca di uomini e bestie per soddisfare la sua fame, con particolare predilizione per le fanciulle di nome Margherita. La cosa andò avanti per molto tempo fino a quando “il principe” non lo uccise mozzandogli la testa con un colpo di spada. Gli stiglianesi riconoscenti gli donarono il bosco "La Foresta”. (p.48 ). L’unica strada percorribile in tal senso è quella che conduce a questa conclusione: il drago altro non sarebbe che la rappresentazione simbolica del fiume. E’ questa dunque, la giusta chiave di lettura? Al di là delle tante versioni che la tradizione, nel tempo e attraverso vari relatori ha arricchito con particolari sempre più diversi e fantastici, a ben guardare fra il drago e il fiume si possono trovare, d’accordo con il Branco, delle analogie sorprendenti. Il drago, infatti, può essere lungo e sinuoso come il percorso di un fiume, impetuoso e travolgente come una piena, vorace e letale come la corrente dell’acqua, pestifero come l’aria di una palude. La fantasia popolare ha creato i draghi per simbolizzare forze naturali terrificanti. I dissodamenti e le bonifiche hanno assunto sovente, nell’agiofrafia e nella mitologia del cristianesimo, l’aspetto della lotta contro un drago. L’uccisore del drago è, da questo punto di vista, un eroe vincitore sul caos naturale; trionfando sulla palude, predispondendo un habitat più adatto all’uomo, egli si manifesta come benefattore.” (p.53)Salvatore Agneta, Il conte e la leggenda del drago, Collana i luoghi della memoria, Nicola Bruno Editore, 2003.



La leggenda dell’Agri


Piu’ in alto di Sant’Arcangelo esiste ancora una chiesa dove sono conservate le corna di un drago che infestava nei tempi antichi la regione. Tale drago abitava in una grotta vicino al fiume e riempiva le terre del suo fiato pestifero, rapiva le fanciulle, distruggeva i raccolti. I contadini avevano tentato di difendersi, ma non potevano far nulla contro quella bestiale potenza. Ridotti alla disperazione, pensarono, infine, di rivolgersi al piu’ potente signore di quei luoghi: il Principe Colonna di Stigliano. Il Principe venne, tutto armato, sul suo cavallo; ando’ alla grotta del drago e lo sfido’ in battaglia. Ma la forza del mostro era immensa e la spada del Principe pareva impotente di fronte al mostro. Ad un certo momento stava quasi per darsi alla fuga, quando gli apparve, vestita di azzurro, la Madonna che lo incoraggio’ a proseguire la lotta. A questa visione l’ardimento del Principe si centuplico’ e gli permise di avere la meglio. Bisognava ora ricompensare il Principe per il servizio reso. Si radunarono percio’ gli abitanti di S.Arcangelo, reputati avari e astuti e dissero che dal momento che il drago abitava nel fiume, era una bestia dell’acqua, il Principe doveva prendere in ricompensa il fiume e non le terre. L’Agri fu offerto al principe ed egli l’accetto’. I contadini credevano di aver fatto un buon affare e di aver cosi’ ingannato il loro salvatore, ma avevano fatto male i loro conti, l’acqua dell’Agri serviva ad irrigare i loro campi e da allora bisogno’ pagarla al Principe ed anche ai suoi discendenti.



Pisticci e le sue leggende


Una leggenda narra che nel XV secolo i Monaci Benedettini dell’abbazia di Santa Maria del Casale di Pisticci scavarono un tunnel lungo e tortuoso dal Castello di San Basilio fino all’abbazia. Il tunnel era utilizzato per proteggersi da eventuali attacchi nemici, probabilmente dei Saraceni, o per sfuggire agli attacchi epidemici di malaria e colera. Altra versione della leggenda dice il tunnel sotterraneo percorreva sotterraneamente il paese, collegando tra loro l’abbazia del Casale, La chiesa del Convento e la Chiesa Madre. Ugo de Pagani (de Payens), il fondatore dell’Ordine dei Templari, soggiornò nel Castello di San Basilio con il suo esercito di cavalieri Crociati prima del viaggio verso la Terra Santa. Nel giugno 2005, una squadra di archeologi, di storici medievali con la testimonianza di giornalisti, si è interessata a questo evento storico appurandone la veridicità. Una leggenda narra che nella Torre Bruni trovò rifiugio Bruto dopo la congiura di Cesare. Nel 1555 Pisticci fu risparmiato dalla peste che imperversava nel Regno di Napoli e che aveva fatto strage nei paesi vicini; molti videro San Rocco sopra la parte più alta del paese nell’atto di benedirlo. Per essere stati risparmiati dalla peste, i pisticcesi lo proclamarono patrono. La zona prospiciente all’ingresso al paese dalla strada che porta al mare è denominata “le Varre”. Una leggenda narra che i monaci Basiliani, arrivati al bivio di Santa Croce (che da una strada entra nel paese, dall’altra porta sull’altura del Casale, ormai inglobata nel centro abitato), dato che i cavalli non rispondevano più ai comandi e rimanevano fermi, diedero le redini alla statua della Madonna che avevano portato con loro; allora i cavalli portarono il carro sull’altura, dove venne costruita l’abbazia



Satriano e la leggenda del Moccio degli Abbamonte


Una delle leggende satrianesi più raccontata in paese è quella del Moccio degli Abbamonte. Una coppia, non potendo avere figli, decise di costruirne uno con sangue e farina. Col passare degli Anni, questo “Moccio” diventava sempre più vivace e dispettoso, cosicché i genitori lo rinchiusero in una stanza. Questi riuscì a venirne fuori e la coppia così decise di disperderlo a “Pietra del corvo”. Dopo qualche giorno il “bimbo” riuscì a tornare a casa e i genitori, stanchi di lui lo murarono vivo. Da allora la stanza dove si trova il “Moccio” non è più stata ritrovata e per questo motivo questa leggenda tutt’ora si tramanda da padre in figlio.



Satriano: il “Mito di Annibale”


A Satriano di Lucania uno dei 100 borghi più belli d’Italia, il fiume Melandro, il cui lento scorrere non è solo in una delle più belle valli della Basilicata ma, secondo la leggenda, anche in una vallata che è stata attraversata dalle truppe di uno dei più grandi generali della storia. Annibale, il cartaginese che osò combattere contro Roma sul suolo italico e che modificò, con il suo genio militare, tutta la metodica e le tattiche delle guerre del tempo. Combattere, anche per la stessa Roma, non fu più la stessa cosa, dopo le lezioni militari che Annibale diede a quello che poi sarebbe stato l’esercito più efficace e temuto mai sceso in guerra. Lungo lo scorrere del Melandro, si attraversa un ponte millenario, che a differenza del vicino ponte stradale del XX secolo, non è stato buttato giù né dal tempo né dal terremoto del 1980. Di bocca in bocca, di sussurro in sussurro, di generazioni in generazioni, da più di due mila anni, la gente del posto lo chiama il “Ponte di Annibale”. Sta lì imperterrito, come la maestosa Torre di Satriano (in territorio di Tito) a ricordarci il valore storico-ambientale dell’area. Ma anche la superficialità di una politica regionale del territorio che, per valorizzarlo, dimostrando di non conoscere ciò che amministra, preferisce l’immediato e inquinante e facile sfruttamento del sottosuolo, rispetto al costruire un percorso, più difficile, ma più duraturo, di rivalutazione economica, attraverso ciò che la storia e la natura hanno voluto regalare, come bene prezioso, al luogo.



La Madonna Nera del sacro Monte di Viggiano


Il pellegrinaggio alla Madonna Nera del sacro Monte di Viggiano viene effettuato ogni anno in due tempi separati: la prima domenica di maggio una processione solenne porta la statua dalla Chiesa di Viggiano (Potenza) al santuario sul sacro Monte - posto a 12 km dal centro abitato ad una altitudine di 1725 metri - poi, la prima domenica di settembre, con un percorso inverso la statua torna dal sacro Monte alla Chiesa Madre di Viggiano. L’usanza di traslare la statua della Vergine da Viggiano alla montagna soprastante deriva, stando ad una versione delle leggende raccolte, da un fenomeno miracoloso: la statua, al termine dei lavori di costruzione della Cappella sul Monte, sarebbe stata trasportata da una forza invisibile a Viggiano dove fu eretta per questo la Chiesa Madre. Ma la successiva domenica di maggio la Madonna si sollevò e tornò in cima al Monte, a significare la sua volontà di rimanere per una parte dell’anno nel paese e per alcuni mesi sul Sacro Monte. Occorre però sottolineare che leggende molto simili a questa si ritrovano in molti altri culti di Madonne “itineranti”. Secondo numerose fonti la storia della Madonna Nera di Viggiano è strettamente connessa alla presenza bizantina: a partire dal VI secolo, con la dominazione orientale arrivarono anche i primi monaci dall’Asia Minore, i quali potrebbero aver introdotto nell’Italia meridionale sia la forte devozione alla Vergine che le icone raffiguranti la “Madonna col bambino” come quella di Viggiano. Si tramanda che durante un assedio dei Saraceni i fedeli nascosero sul monte sovrastante Viggiano la statua lignea della “Madonna Nera”, sottraendola alla mano degli infedeli e, sempre secondo la leggenda, molti secoli dopo - fra il XIV e XV - alcuni pastori notando sul monte delle lingue di fuoco ritrovarono la statua della Madonna. La tradizione popolare indica il luogo del ritrovamento in una buca che si trova esattamente dietro l’altare della Cappella che oggi ospita la statua della Madonna da maggio a settembre. Una volta ritrovata, la statua della Madonna fu portata a Viggiano e collocata in una piccola cappella denominata S. Maria del Deposito - in seguito Chiesa Madre di Viggiano - consacrata nel 1735. Nel 1965 questa fu elevata a Basilica minore pontificia e la Madonna di Viggiano proclamata Patrona e Regina delle genti lucane. Lungo l’ultimo tratto del percorso aumentano gradualmente i suonatori provenienti anche da altre zone circostanti e si sparpagliano in mezzo ai pellegrini sostenendoli ed incitandoli con la loro musica. Si apre così davanti ai pellegrini l’ultima corsa verso la Madonna Nera di Viaggiano. L’arrivo della statua alla piccola chiesetta che attende con le porte aperte segna un momento intensissimo: è tradizione che i soli portatori entrino per primi e sfoghino la loro gioia e fatica davanti alla Madonna a loro affidata e giunta sana e salva nella sua casa, mentre i fedeli assistono e attendono sul sagrato il loro turno per salutare la Madre Divina. Una volta giunti, non rimane che compiere i tre giri rituali intorno alla Chiesetta baciandone i quattro angoli perimetrali esterni e poggiare ancora una volta alla teca della Madonna una immaginetta, un fazzoletto, un fiore da riportare a casa per assicurarsi la sua protezione. Conclude il pellegrinaggio il pranzo nel bosco circostante, ma la Madonna Nera non rimarrà sola nella chiesetta sul sacro monte, perché a partire dalla prima domenica di maggio fino al suo ritorno a Viggiano, i fedeli continuano a ritornare a farle visita e il monte diventa meta di passeggiate e scampagnate.



IL PONTE DELLA VECCHIA SUL FIUME BASENTO


Nei pressi di Campomaggiore, all’altezza dello svincolo sulla SS 407 “Basentana”, si trova una delle più interessanti, curiose e sconosciute costruzioni medievali di cui la Basilicata sia dotata. Si tratta di un ponte ad una sola luce con arco a pieno centro che da tutti viene conosciuto ed è segnato nelle mappe come “Ponte della Vecchia”. Ad esso si arriva dopo aver superato lo svincolo nei pressi del Ponte Balzano; una volta giunti alla cosiddetta zona di espansione industriale di Campomaggiore ed effettuata una salita con l’automobile dopo aver abbandonato quest’ultima, si prosegue lungo uno sterrato verso il fiume Basento, lungo un antichissimo tratturo denominato nel secolo scorso Trono. Per chi effettua questo percorso, l’unico davvero praticabile e, comunque, da inserire in un itinerario turistico, la costruzione appare monumentale ed ardita, se si pensa che subito al di sotto scorre impetuoso il fiume che, almeno in questo tratto, appare a volte dolce nel suo corso, ma molto profondo. Probabilmente è questa situazione piuttosto pericolosa che ha indotto gli abitanti di Pietrapertosa e Campomaggiore a denominare il ponte come Ponte della Vecchia. Si narra, infatti, che molti secoli fa una signora del luogo, feudataria di Policoro, avesse perso uno o due figli proprio in quell’attraversamento e che quindi avesse costruito il ponte in onore di essi; un’altra tradizione la rimanda alla presenza e al passaggio di Annibale: se quest’ultima storia è da escludere, è necessario supporre che il ponte ed il suo guado furono sempre oggetto di passaggi importanti per la comunicazione fra i vari centri delle Dolomiti Lucane e della Media Valle del Basento.La storia è piuttosto singolare: come mai una leggenda dedicata ad una fantomatica signora feudataria di Policoro? Probabilmente le ipotesi più attendibili sono due: la prima è che il ponte, per le caratteristiche magico-religiose che ha sempre rappresentato nell’Antichità e nel Medioevo, era un luogo “sacro”; ed in effetti di sacro in questi luoghi erano proprio le magiàre o masciare, cioè le anziane donne che con pratiche pagane guarivano o davano il malocchio. Di qui la derivazione, forse, di ponte vecchio in ponte della Vecchia. Una seconda ipotesi, molto suggestiva a dire il vero, è che un lontanissimo riferimento lo ritroviamo nelle fonti scritte. Sappiamo che in Basilicata vi era già il Ponte di Santa Venere, e che l’imperatore Federico II provvide alla sua riparazione, come risulta da un atto del 1250 quando stabilisce che tutte le proprietà presenti presso il Ponte di San Nicola dell’Ofanto e tutte le rendite provenienti da esse fossero adibiti “ad reparacionem et consummacionem pontis ibi constructi vel construendi”. Un altro ponte viene nominato, però, già nel 1118, e si riferisce ad Albereda, signora di Colobraro e – combinazione – Policoro, vedova di Ruggero di Pomerada e moglie di Riccardo Senescallo, che concede alla Trinità di Venosa un ponte sul fiume Agri che aveva fatto costruire il marito. Ecco presente, dunque, una donna, il che significa che anche alla figura femminile, sebbene subalterna, si concedono alcune prerogative piuttosto importanti come la realizzazione o il restauro di un ponte.



Miti e leggende lucane: La Quaremma


Il Mercoledì delle Ceneri segnava in passato e segna ancora oggi l’inizio della Quaresima (Quadragesima), periodo di quaranta giorni che termina con la Pasqua. Il periodo di quaresima è un periodo dedito alla moderazione, al ritiro, alla purificazione del corpo e dell’anima e proprio durante il periodo di Quaresima a Matera e nei paesi vicini è possibile notare la figura della “Quaremma”. La Quaremma rappresenta la Quaresima periodo di rinunce e privazioni. La Quaremma è una bambola di paglia e stracci che raffigura una vecchiaccia brutta e magra, vestita di nero che tiene nella mano destra un filo di lana con un fuso, simboli della laboriosità e del tempo che scorre e nella sinistra una arancia amara con dentro infilate sette penne di gallina per quante sono le domeniche mancanti dalla Quaresima alla Pasqua. L’arancia amara, rappresenta la sofferenza e le sette penne rappresentano le settimane di astinenza e sacrificio che precedono il giorno di Pasqua. La Quaremma è vestita di nero poichè è a lutto a causa della morte del marito “carnevale” bruciato sul rogo la domenica che precede il mercoledi delle ceneri. La morte del carnevale, il cui pupazzo viene bruciato nelle piazze, rappresenta la fine dei bagordi e l’inizio della Quaresima, tempo di digiuno e di penitenza,(dal latino carnem levare, cioè eliminare la carne) o Martedì Grasso (l’ultimo giorno di carnevale, in cui si può mangiare “di grasso”). Il pupazzo Quaremma viene appeso su un filo teso tra balconi o finestre acune volte si notano, appesi, anche sette piccoli fantocci al fianco della Quaremma e sono i figli di Quaremma e Carnevale e possono anche essi rappresentare le sette settimane di Quaresima. Alcuni sostengono che Quaremma abbia un legame con la mitologia greca classica e rappresenterebbe Cloto, una delle tre Parche greche, il suo nome viene dal greco Klothes, ovvero filatrice, che teneva in mano la conocchia e filava il destino degli uomini. Il fantoccio della Quremma a Pasqua viene rimossa e bruciata a simboleggaire la fine del periodo di penitenza e privazione e l’arrivo della rinascita e dela salvezza.



Il mistero dell' ingresso spostato della chiesa di Santa Maria dell’Olmo a Castelmezzano.


La chiesa di Santa Maria dell’Olmo, edificata nei pressi di un olmo, da cui il nome. Si trovava accanto ad un albero e un corso d' acqua, due elementi di enorme carica simbolica, il primo è l'albero della vita e il secondo la fonte della vita. L’ingresso della chiesa sarebbe stato spostato: anticamente era rivolto verso oriente, ma oggi rimane solo una parete murata con una croce templare nell'architrave triangolare. Durante una fase di restauro è stata trovata una croce patente templare, una delle tante testimonianze della presenza dell'Ordine dei Templari in quest'area. Sopra l'ingresso, inoltre, ci sono altri interessanti elementi: orsi, leoni, grifoni e soprattutto rose. In questa chiesa è stata celebrata nel giugno 2006 un'investitura a cavaliere secondo gli antichi rituali. Un tempo i cavalieri venivano investiti in chiesa: era un fatto estremamente sacro in quanto veniva dato il compito di proteggere il Santo Sepolcro di Gerusalemme direttamente da Dio attraverso il sacerdote dinnanzi al cavaliere inginocchiato.



Nella chiesa di Sant’Egidio a Latronico si può assistere al “miracolo della manna”.


In uno (o più) venerdì di marzo, nella chiesa di Sant’Egidio a Latronico, si può assistere al “miracolo della manna”. Sulla parete destra della cappella dedicata al patrono c’è un affresco raffigurante l’incontro di Sant’Egidio con il re Goto Wamba, che durante una battuta di caccia in un bosco della Gallia, ferisce una cerva che fugge impaurita. Il re con i suoi uomini insegue l’animale, che li conduce in una spelonca dove trovano appunto l’eremita Egidio, a cui la cerva garantiva nutrimento con il suo latte. Proprio su questa parete, ormai da tre secoli, si può assistere - almeno un venerdì del mese di marzo - al miracolo. Fu nel 1709, durante le prediche quaresimali, che nella cappella dedicata al Santo furono notate goccioline di un liquido insolito che scaturiva dal muro e dalla statua del Santo. Le autorità ecclesiastiche non diedero importanza al fatto. Il popolo, invece, si accorse che qualcosa di speciale era accaduto, anche perché il fenomeno si ripresentò negli anni successivi, con diverse condizioni atmosferiche e sempre durante la Quaresima, in particolare nei venerdì di marzo. L’autorità ecclesiastica avrebbe continuato a dare poca importanza al fatto se il 18 aprile 1716 il prodigio non si fosse presentato in forma eccezionale. Era la sera del mercoledì santo, il popolo gremiva la chiesa e ascoltava con raccoglimento la predica; poi all’improvviso agitazione e tutti scoppiano a piangere: dalla barba della statua marmorea del Santo stillava quel misterioso liquido che per sette anni consecutivi era stato notato e in breve tempo tutto l’edificio sacro ne fu pieno. Fu subito informato il vescovo, che si recò a Latronico per constatare di persona. Nel 1723 all’Ordinario diocesano è fatto il rapporto ufficiale e nel 1727 egli stesso ne riferisce alla Sacra Congregazione dei Riti, avvalorando il miracolo con la propria testimonianza oculare. Furono esaminati tutti i notabili del paese e il predicatore alla cui presenza il prodigio si era verificato la prima volta. Il processo si concluse nel marzo di quello stesso anno e nel febbraio del 1728 si ottiene il Licet Colligere Manna Quoties Casus Evenerit (è lecito raccogliere la Manna ogni volta che il fatto avviene). Analisi della Manna sono state effettuate nel 1968/69: dai risultati è emerso che si tratta di un liquido inodore e insapore, che con il passare del tempo assume il colore dell’ambra. Ancora oggi la Manna è ritenuto segno propizio della protezione del Santo. Dall’epoca della sua prima comparsa il segno della Manna, secondo la memoria orale, non si è mai smentito, tuttavia nel XX secolo non si è verificato negli anni 1918 e 1944, anni delle due Guerre Mondiali, nel 1961 e nel 1990. I tanti fedeli che assistono al miracolo si portano poi a casa un ricordo, appoggiando dei bigliettini di carta sul muro bagnato.



A Venosa una chiesa antica custodisce il rito segreto della fertilità.


La chiesa della Santissima Trinità della città oraziana custodisce un segreto: è molto antica, sorta in età paleocristiana su un tempio pagano che era dedicato a Imene, dea greca nata da Apollo e Afrodite. Nella mitologia è alla testa di ogni corteo nuziale ed è protettrice per l'appunto del matrimonio. All’entrata troviamo due leoni a protezione della porta. Accanto alla chiesa vecchia, si trova una colonna romana sulla quale vi è un antico rituale, che è possibile trovare anche in altre parti d’Italia: si dice che lo sfregamento da parte delle donne sulla colonna porterebbe fertilità.



Melfi e Barile, il Vulture dei briganti.


Saliti sullo sperone di roccia sul quale è eretto il Castello di Melfi, si è presi da una voglia matta di andare a scoprire il Vulture dei briganti. Intorno a questo monte di origine vulcanica, nelle foreste di faggi, pini, cerri, castagni e abeti che ne tappezzano le pendici e cingono i laghi di Monticchio, ovvero le antiche bocche del vulcano, per tutto l’Ottocento e sino ai primi decenni del secolo scorso imperversavano i banditi. In località Foggianello ancora si scorgono le grotte in cui Crocco si nascondeva, tendendo tranelli e trabocchetti a diligenze private, e milizie pubbliche. A Barile, dove Pier Paolo Pasolini girò Il Vangelo Secondo Matteo (non si trovava un bimbo per fare il Cristo e fu scelta così una femminuccia, insomma una Gesù bambina) e dove il venerdì Santo ormai da 400 anni si svolge la processione più famosa ed emozionante di tutta la Basilicata con Gesù tenuto a digiuno per una settimana, la zingara agghindata con gli ori di tutte le compaesane e il Moro che gioca a palla – tradizione cristiana mescolata a elementi pagani della cultura arbëresche vista la presenza secolare di una folta comunità di origine albanese - , c’è addirittura “una valle delle cantine” in cui gli abitanti del borgo hanno semplicemente approfittato delle caverne naturali negli anfratti di roccia per stiparle di damigiane. Nei boschi di faggi, si percorrono i declivi intorno al Vulture dai quali zampillano fresche acque sorgive come la Fonte Gaudianello, nulla di incomparabile comunque con la bellezza dell’Abbazia di San Michele che si specchia con la sua fiabesca sagoma bianca nel lago più piccolo di Monticchio. Vi è però una grotta più sorprendente e misteriosa di tutte, di cui solo un uomo dai capelli bianchi – l’angelo delle tradizioni melfesi, moderno monaco basiliano – che tutti salutano come in un paese arabo, custodisce la grossa chiave in ferro della Chiesa rupestre di Santa Margherita. Sorge sotto il manto stradale sulla via che conduce al camposanto di Melfi al termine di un sentiero di margherite, la sua apertura è rivolta verso il castello: accanto all’affresco della nicchia centrale in cui è raffigurata S. Margherita, si riconosce anche a occhio nudo il corteo imperiale composto da Federico II, la moglie Elisabetta d’Inghilterra e il figlio Corrado con tanto di falco, forse pronti per andare a una battuta di caccia nella vicina Lagopesole dove sorge un altro castello federiciano. L’imperatore sembra però spaventato. Dai briganti? No, piuttosto dagli scheletri umani in posizione retta, rara nell’iconografia anche rupestre del ‘200, che sembrano ammonirlo: il destino ultimo dell’uomo è uguale per tutti, re, contadini e briganti.



La leggenda di Venosa e il destino di un eroe - La mitica fondazione della città oraziana.


Quando tutti i sacrifici sono fatti agli Dei, questi, se scelti bene, sanno ricambiare lautamente. Era sicuramente ciò in cui speravano gli auguri (i sacerdoti romani) quando scelsero il pianoro venosino per edificare una potente colonia, che doveva servire a proteggere Roma dagli attacchi dei popoli Apuli e Lucani. Va ricordato in proposito, che vi sono diverse fonti storiche e archeologiche che riportano Venosa ad un'origine preromana, fra cui Dionigi di Alicarnasso (Antiqu. 17, 18, 5) riferisce che già nel IV secolo (prima della fondazione romana del 291 a. C.) Venusia era una città πολυάνθροπος (città popolosa) difesa da massicce mura, che godeva di caratteristiche tipiche di una repubblica; aveva il suo senato, l’esercito, leggi proprie e monete coniate con il monogramma VE. Anche se in realtà non sappiamo se vi sia mai stato un rito di fondazione nella nascita di Venusia romana, ciò che sappiamo è che il centro preromano doveva essere un incrocio di molteplici e importanti vie provenienti da ogni direzione, con una posizione particolarmente felice nelle comunicazioni dell’Italia meridionale. I romani pertanto, lungimiranti nella gestione politica e territoriale del sito, lo colonizzarono ed eseguirono l’impianto coloniale alla perfezione, curandolo fin nei minimi dettagli, se ancora una volta, come per le tante e meravigliose opere antiche d’ingegneria urbana (di cui Venosa conserva un interessantissimo esempio come l’acquedotto romano lungo l’odierna Via Appia, che ha rifornito la città per ben 2000 anni!), la storia diede ragione loro in tutto e per tutto. Venosa infatti, può a tutt’oggi essere considerata forse l’unica città della sua regione che dalla nascita, vive, sopravvive, e risorge, senza soluzione di continuità, fra invasioni, periodi di splendore e di decadimento. Miti e leggende: l'eroe greco Diomede. Ma per gli amanti di miti, storie e leggende non poteva essere altrimenti; l’antico pianoro, ricco di acque e sorgenti, posto fra i due verdi valloni (Ruscello e Reale) vantava già epiche ascendenze. La leggenda della prima fondazione di Venosa risale infatti, all’arrivo del mitico eroe greco Diomede in viaggio dopo la caduta di Troia. Dopo il grande evento, secondo il mito omerico, il figlio protetto della dea Atena fu il primo tra tutti gli Achei a tornare in patria, ad Argo (di cui Diomede era divenuto re dopo la morte del vecchio sovrano, ovvero il padre della sua futura moglie Egialea, perito durante la seconda guerra contro Tebe, a cui aveva inoltre valorosamente partecipato lo stesso Diomede). Il veloce ritorno era però opera di Afrodite, ansiosa di vendicarsi dell’offesa ricevuta durante la guerra; ricordiamo infatti, che il figlio di Tideo, “simile a un torrente in piena che tutto travolge”, nel pieno dello scontro contro i troiani, ferì a una mano la più bella delle dee mentre tentava di sottrarre il figlio di ella, Enea (il futuro fondatore di Roma), alla furia dell’eroe. L'incontro con Afrodite e la mitica fondazione. Al suo ritorno ad Argo quindi, né sua moglie Egialea né i suoi sudditi lo riconobbero più: Afrodite aveva cancellato il ricordo del eroe-re dalla loro memoria. Ancora una volta il destino condusse pertanto l’eroe ad abbandonare la sua città e ad avventurarsi questa volta per l'Italia, con l’intento forse di ottenere il perdono della dea nata dalla spuma del mare (Afrodite). Imbarcatosi, Diomede si fermò nei porti dell’Adriatico e insegnò alle popolazioni locali a navigare (arte sotto la protezione di Afrodite) e ad addomesticare i cavalli. Da campione della guerra Diomede divenne così l’eroe del mare e della diffusione della civiltà greca o meglio “l’eroe della civilizzazione”, come in seguito verrà definito, per aver a lungo navigato e per aver fondato diverse città della costa adriatica e della Daunia, come Canusium, Arpi, Sipontum e Luceria. Infine, per placare l’ira di Afrodite (Diomedes... Venusiam in satisfactionem Veneris, quod eius ira sedes patrias invenire non poterat: quae Aphrodysias dicta est, Servio ad Aen. II, 216) fonda Venusia (Venere infatti, dea dell'amore, della sessualità e della bellezza, come sappiamo è nella mitologia romana, l’equivalente di Afrodite nel pantheon greco) e ottiene il desiderato perdono. Dopo il lungo viaggio l’eroe decise però di non tornare più in patria ma di stabilirsi in Italia meridionale, sposando la principessa Evippe (figlia del re Dauno, signore dell’antico popolo indigeno dei Dauni). Una spiaggia delle Isole Tremiti divenne il luogo di sepoltura dell’eroe greco e, sempre secondo la leggenda, i suoi compagni vennero trasformati da Afrodite in grandi uccelli marini: le “diomedee”, allo scopo di bagnare per sempre la tomba del grande eroe Diomede.



Principi ed Eroi della Basilicata Antica.


Sono stati trovati preziosi oggetti di straordinaria valenza evocativa provenienti dalle antiche “metropoli” delle genti nord-lucane (Vaglio, Baragiano, Torre di Satriano). Si tratta di simboli che rimandano alla forza e alle virtù guerriere e all’importanza della competizione tra guerrieri armati alla maniera degli eroi celebrati nei poemi omerici: una spada con l’immanicatura in avorio, un elmo con alto cimiero, un emblema di scudo con la Chimera, essere mostruoso a tre teste, di leone, capro e serpente, per spaventare il nemico in battaglia. Eroi del mito greco quali Eracle e Teseo sono rappresentati anche su splendidi vasi a figure nere da Baragiano, ad evocare un mondo leggendario che diventa un riferimento ideale. Segni del cerimoniale e del lusso femminile sono un eccezionale fuso in ambra, vari pendenti in ambra raffiguranti figure del corteggio dionisiaco (satiro e menade), una parure in ambra e oro e uno splendido diadema in oro: elementi di vesti cerimoniali, indossate per accompagnare rituali, come il matrimonio, che scandiscono il ciclo esistenziale della donna.



Il mito delle Sirene


Cominciamo con lo splendido mare che, secondo antichi confini, orlava a occidente la Lucania. Donne bellissime che, seducenti, apparivano tra le spume del mare chiedendo con un canto suadente ai marinai di interrompere la loro solitaria navigazione, di indugiare con loro.... Nessuno, meno l’astuto Odisseo, resisteva all’invito - che precedeva una fine crudele - ed il mancato ritorno di tanti marinai, insieme alla dolce ma infame lusinga raccontata dai superstiti, furono premesse formidabili per diffondere il mito delle Sirene, che trova le sue prime origini nella terra degli Arii, incredibilmente lontana nel tempo e nello spazio. Più delle leggende, delle massime, dei proverbi - di solito nati più tardi- è il mito che, svelato, diventa storia. E, trovandoci in terra lucana, parliamo delle Sirene, due delle quali, secondo Licofrone, Apollonio Rodio ed altri, avevano dimora e culto sulle coste che a questa regione appartenevano secondo i suoi più antichi confini, precisamente a Licosa e a Palinuro-Molpa, mentre altre due ebbero stanza nella penisola di Sorrento e a Napoli. I miti, in particolare quello delle Sirene, esseri, questi, cui viene universalmente riconosciuto il ruolo di “attrarre e procurare sventura” ed il cui nome deriverebbe da una radice sanscrita (svar=cielo) legata al significato di “splendore” (e quindi “attrazione”) oppure, secondo altri etimologi (forse più verosimilmente avendo esse fama di demoni dal canto seduttore) dalla base semitica “sjr, che vuol dire cantare. Di esse si legge nel Pianigiani (op. cit.): “esseri mitologici il cui busto era di vaga donna e terminava in pesce, i quali avendo stanza sul lido del mare adescavano col soavissimo canto i naviganti per poi farli naufragare”. Sostanziava questa favola il mortale rischio di coloro che, dirigendo la nave verso tratti di mare resi splendenti dalla poca profondità delle acque, increspate e suonanti, si perdevano con essa. Continua, il Pianigiani, sempre con riferimento alle Sirene e in armonia con quanto detto: “ebbero questo nome perché in origine furono il simbolo della piana e lucida superficie del mare, sotto la quale stavan coperti gli scogli e i banchi di sabbia; donde la favola che fossero vergini fanciulle le quali, stanziate in un’isola, colla dolcezza del loro canto attraevano a sé i naviganti e poi li uccidevano. Omero ne annovera due e le colloca in un paese immaginario; di poi furono comunemente tre lungo la costa meridionale d’Italia. Più tardi appaiono talvolta come geni della morte e il loro canto è funereo, tal’altra come immagine di un’attrattiva irresistibile e ingannatrice”. “Si estesero i primi limiti della Lucania dal fiume Silaro (=Sele) infino a Reggio ...” Da Antonini, 1983. I Greci inizialmente conservarono l’immagine della Sirena come donna-uccello. Si vedano in proposito le numerose raffigurazioni tra le quali ricordiamo quella, assai bella, su un’anfora dipinta da Python e conservata nel museo di Paestum, la pittura vascolare del mito di Ulisse (British Museum), la Sirena sull’omonima porta di Paestum, le figurazioni sul vaso greco, detto delle Sirene, esposto nel Museo Correale di Sorrento ed infine un' anfora del VI secolo. Le prime rappresentazioni come donne-pesci si hanno, invece, in un vaso di Megara del II secolo a.C. (Museo Nazionale di Atene) e in una lucerna romana del I-II secolo d.C. (Royal Museum di Canterbury). La scena riprodotta è sempre quella che ricorda la vicenda di Ulisse, ma questa volta ad insidiarlo sono, appunto, donne-pesci.



Montescaglioso: i " Cucibocca ".


Tra i miti e le leggende che fanno parte del folclore e delle tradizioni di Montescaglioso, uno e' sicuramente unico in tutta la Lucania: i "Cucibocca ". Nel paesino di Montescaglioso, in provincia di Matera, il 5 gennaio prendono vita i misteriosi Cucibocca. Questi personaggi inquietanti vestiti con vecchi cappotti neri e un cappellaccio hanno lunghe barbe giallastre, catene spezzate ai piedi e una lanterna in mano, bussano alle porte chiedendo offerte e minacciando di cucire la bocca ai bambini. Questa antica tradizione contadina prende ancora vita la notte precedente all’epifania, quando l'originale corteo notturno si aggira per la città spaventando (e divertendo) i bambini. Non si conoscono le origini di queste figure, ma la risposta potrebbe trovarsi sulle mura della biblioteca dei monaci di questo piccolo paese dove è rappresentato l’Arpocrate, il dio egizio del silenzio, raffigurato come un vecchio, con il cappuccio, l’indice rivolto verso le labbra a chiedere silenzio e una grande barba giallastra.



MARATEA La festa di San Biagio

Ogni anno, il primo sabato di maggio, con la processione “San Biagio và per la terra” che si svolge tra i ruderi dell’antica Maratea, i marateoti danno inizio ai solenni festeggiamenti in onore di San Biagio, protettore della Città; il successivo giovedì, i confratelli dell’antica omonima congrega, fondata nel 1500, trasportano lungo il sentiero montano che collega “ Maratea di suso” a “Maratea di giuso”, la statua argentea coperta da un drappo rosso porpora che richiama la neutralità del santo durante il tragitto rispetto alle annose dispute tra le due comunità per la titolarità sulla festa. All’ingresso del paese la statua viene tradizionalmente accolta dalle autorità religiose e dal sindaco che le offre le chiavi della città. Il sabato mattina una solenne processione attraversa tutto il centro storico che, per l’occasione, accoglie una grande fiera, mentre la sera il paese è animato da scenografiche luminarie e concerti musicali. La domenica mattina una grande folla di fedeli risale monte San Biagio per riaccompagnare il Santo tra le poderose mura della basilica che lo custodirà per tutto l’anno.



Monnalisa sarebbe sepolta a Lagonegro


I resti di Lisa Gherardini, la donna che si pensa abbia fatto da modella per il celebre dipinto di Leonardo da Vinci, si trovano in Basilicata o in Toscana? L’interrogativo continua ad intrigare e torna d’attualità dopo l’inaugurazione a Lagonegro del Monnalisa Museum quando a Firenze restano in attesa dei risultati sugli scavi condotti nell’ex monastero di Sant’Orsola alla ricerca dei resti della «Gioconda». Difficile stabilire da che parte stia la verità, dal momento che esiste qualche dubbio – se non sull’esistenza di Lisa de’ Gherardini – sulla sua effettiva relazione col dipinto di Leonardo. Tuttavia, lo scontro culturale tra le due città continua. Il museo inaugurato a Lagonegro è il segno evidente della volontà della cittadina lucana di non voler rinunciare all’appellativo di città di Monnalisa, nonostante a Firenze siano convinti che i resti della modella di Leonardo si trovino nell’ex convento di Sant’Orsola. Ma su quali elementi si basano le ragioni delle due contendenti?. Lagonegro ha dalla sua il racconto contenuto nel libro dello scrittore russo Dmitrij Sergeevic Merezkowskij, autore nel 1901 del romanzo su Leonardo da Vinci. A pagina 229 Merezkowskij scrive: «Quella sera stessa, però, fu informato di tutto (Leonardo, ndr): durante il viaggio di ritorno dalla Calabria, dove Messer Francesco aveva concluso con grande suo vantaggio alcuni affari, tra gli altri uno per l’importazione di pelli di montone a Firenze, Monnalisa era deceduta a Lagonegro, una piccolissima città sperduta, chi diceva di malaria e chi di una malattia infettiva alla gola». A quei tempi per andare in Calabria unica via era l’antica Popilia che passava per Lagonegro. Dal canto suo, invece, Firenze si basa sul ritrovamento avvenuto nel 2007 nella città dell’Arno: Lisa Gherardini, «donna fu di Francesco Del Giocondo, morì addì 15 di luglio 1542, sotterrossi in Sant’Orsola», si legge in un documento che riporta altri atti di morte di cittadini fiorentini. Il documento venne ritrovato da Giuseppe Pallanti, docente appassionato di ricerche storiche, spulciando le carte di un archivio parrocchiale che si trova nel centro storico di Firenze.



Cilento: natura e siti archeologici dell'antica Lucania


Nel cuore della Campania, nel Sud d'Italia, si trova la subregione montuosa del Cilento che comprende gran parte della provincia di Salerno fino ai golfi di Salerno e Policastro. In passato questa zona faceva parte dell'antica Lucania, di cui sono rimaste tracce nella gastronomia e nella toponomastica (es.: Vallo della Lucania e Atena Lucana). Quella del Cilento è una terra che vanta miti e leggende: si dice che qui si tenne il primo scontro filosofico della storia, quello tra Eraclito e il suo Pantarei e Parmenide con la sua immanente realtà. Tanti sono i luoghi da visitare in questa zona, partendo proprio dai siti archeologici, come quello di Paestum con il suo museo, con i templi e l'Agorà. E ancora, l'area archeologica di Elea-Velia con le testimonianze greche e romane. A questi si aggiungono i luoghi d'interesse naturalistico, come le gole Bussentine di Morigerati e quelle del Calore a Felitto, le grotte di Castelcivita, la diga del Alento e la foce del Sele.



Il ritratto di Leonardo Da Vinci a Vaglio Basilicata (PZ)


Una splendida tavola in pioppo curiosamente assemblata, supporta quello che per alcuni studiosi è stato ritenuto il ritratto del volto di Leonardo Da Vinci. Passato nel tempo dalle mani di nobili famiglie lucane a quelle di un collezionista salernitano, il dipinto trova spazio in un contesto di ricerca molto particolare che da sempre suscita interesse e curiosita' intorno a quello che si riconosceva come il volto del piu' grande genio dell’umanita’. Sin dai primi momenti del ritrovamento avvenuto durante il recupero e lo studio delle opere del noto pittore lucano Antonio Stabile, non si è mai perso di vista il criterio e la severità di un approccio scientifico relativo sia al supporto ligneo che al pigmento pittorico, ad opera dagli esperti della Seconda Università degli studi di Napoli. Analisi preliminari (XRF su vari punti dello strato pittorico e datazioni con il metodo del radiocarbonio con spettrometria di massa con acceleratore su microframmenti di legno prelevati dal retro della tavola) hanno dimostrato il reperto è ascrivibile alla seconda meta’ del XV secolo, e che l’attribuzione alla mano di Leonardo è oggetto di una serie di attivita’ di studio in ambito storico ed artistico.



Palazzo Margherita a Bernalda: storia, storie e leggende


Esiste una leggenda raccolta tra gli anziani che trascorrono i pomeriggi in Piazza Plebiscito, di fronte Palazzo Margherita. E’una leggenda un po’ triste ma colma di amori e passioni. Il finestrone centrale del balcone che sta sul portone d’ingresso, sembra che in realtà sia una esatta riproduzione in muratura, quindi chiuso. Il motivo di questa muratura e successiva contraffazione di un finestrone nasce da un fatto di amore-suicidio che colpì la famiglia che qui abitava. La figlia del proprietario, ricco signore del luogo, si innamorò perdutamente del giovane stalliere di famiglia. Il loro amore era forte e intenso ma clandestino. Entrambi sapevano che la differenza sociale avrebbe impedito qualsiasi forma di unione. Lui povero stalliere non sarebbe mai stato accettato dal padre e dalla famiglia di lei. Il loro amore continuò così ad essere inconfessato al mondo e segreto a tutti. Ma i segreti, da queste parti, non sono mai tali e il padre venne a sapere della storia tra i due giovani. Incontrò il giovane e lo cacciò di casa e appena questo si allontanò dal paese gli sparò con un fucile. Il ragazzo, ferito gravemente, parve morto agli occhi del signorotto soddisfatto del suo operato tornò a casa raccontando i fatti. La ragazza convinta della sua morte del suo amato si rinchiuse in se stessa annientata dal dolore. Una notte in preda alla disperazione e si lanciò dal balcone. Aveva deciso di morire e di raggiungere spiritualmente il suo amato. In realtà il ragazzo non era morto, Ferito gravemente, venne trovato sanguinante da un pastore, tra i campi intorno il paese, il pastore lo portò con sè e lo curò fino alla completa guarigione. Superata il rischio di morte il ragazzo si riprese più forte che mai, ma la notizia del suicidio delle sua amata lo sconvolse a tal punto che decise di abbandonare Bernalda e partire più lontano possibile. Nel palazzo invece da quel momento accaddero cose strane e inquietanti. Ogni notte al finestrone centrale si sentivano dei colpi, come bussare. Era l’anima della ragazza che ogni notte cercava di entrare in casa. Era in cerca dell’anima del suo amato. Per evitare che lo spirito della ragazza entrasse nel palazzo, decisero di eliminare il finestrone vero e di ricostruirne uno finto in muratura. Tale espediente servì a evitare che lo spirito della fanciulla entrasse nel palazzo, dato che la porta era solo disegnata e quindi non vi era ingresso. Dal quel momento in poi lo spirito della ragazza cessò di aggirarsi intorno al palazzo e continuò la ricerca del suo amato altrove.



Grottole: il castello e Abufina


Una notizia, non ancora verificata, narra che il castello di Grottole fu fatto costruire nell’851 da Sichinulfo, un duca longobardo principe di Salerno. Fatto edificare con materiale calcareo e difeso da una serie di merli e feritoie, per i numerosi arcieri, difendeva la città di Grottole, che anticamente, come si legge nei Registri Angioini, era cintata di mura con vallo e ponte levatoio. Probabilmente il duca Sichinulfo aveva voluto questa fortezza soprattutto per difendere i territori venuti in suo possesso. Oggi non rimane che un colossale torrione, con una sola finestra spalancata verso il paese e, se la si osserva con attenzione nelle notti di luna e nei mesi da aprile a giugno, è facile vedervi una figura di una donna, Abufina, la più bella e la più sfortunata ragazza mai vissuta a Grottole. E’ la storia di un grande amore che inizia così. Un giorno Abufina, bellissima dama, ricamava seduta accanto alla finestra del torrione: ella possedeva la pelle bianca come latte e pensava al suo amore, Selepino, che combatteva in terra lontana. All’improvviso, mentre era intenta ai lavori domestici, avvertì lo scalpitio di un cavallo; era un messaggero che portava un plico che così recitava: “Vieni, Abufina, vieni da me; io che uccido i nemici, me l’amore mi uccide; vieni, Abufina, vieni da me: insieme con te al castello di Grottole sol tornerò; fà presto, fà presto…”. E Abufina partì, ma il bianco cavallo, distratto dalle pietre luccicanti e scivolose del fiume Basento, s’impennò, e la bella fanciulla fu travolta nei vortici del fiume. La leggenda narra che il signore del castello, per onorare la memoria di una fanciulla, Abufina, morta per andare incontro al suo amore vi collocò una lapide (di cui era possibile vedere fino agli inizi del secolo scorso dei frammenti) con una scritta: “Ad Abufina la bella, che corse, cui fu dolce morire d’amore; questa torre che fu tua dimora, parli sempre alle genti di te. Ogni amante ti porga un saluto, e si stringa al suo cuore l’amata…”. Ancora oggi il Basento, pentitosi per aver distratto il cavallo bianco, pare che mormori ogni tanto il nome di Abufina.



Grassano.Chiesa della Madonna della Neve e la leggenda del contadino povero


Esiste anche una curiosa leggenda popolare legata a questa chiesa, la quale racconta che “un povero contadino decise di vendere l’anima al diavolo in cambio di molte ricchezze. Ma con il passare degli anni, sentendo avvicinarsi il momento in cui sarebbe morto, iniziò ad aver paura di andare all’inferno e cominciò a pregare la Madonna perché lo aiutasse a salvare la sua anima dalla dannazione eterna. Fu così che una notte gli apparve in sogno la Madonna della Neve che gli disse: “Figlio mio, se vuoi salvarti in segno di penitenza segui la Santa Messa nella mia chiesa, ma non distrarti qualsiasi cosa succeda”. Il giorno dopo, appena sveglio, il contadino prese il suo cavallo e uscì per andare a seguire la Santa Messa. Arrivato davanti la chiesa della Madonna della Neve legò il suo cavallo all’anello di ferro posto (sino a qualche anno fa) accanto al portone d’entrata della chiesetta e andò fiducioso a seguire la funzione. Ma durante la messa il diavolo, accortosi di ciò che stava succedendo, si impossessò del cavallo del contadino che iniziò a nitrire e a scalciare con forza contro il muro della chiesa. I colpi erano così forti da far tremare tutta la chiesa. La gente, impaurita, cominciò a strattonare il contadino affinché andasse a calmare il suo cavallo, ma lui era così concentrato nell’ascoltare la Santa Messa che non diede retta a nessuno, né si lasciò impaurire da tanto baccano. Terminata la funzione il contadino all’uscita della chiesa, si trovò senza cavallo e con in dosso gli stessi poveri abiti che possedeva un tempo. Tutti i suoi beni erano scomparsi. Così povero, ma felice, si addormentò e morì, finalmente in grazia di Dio”.



Rotondella: nascita del villaggio


Il villaggio di Rotondella pare sia sorto sulle ceneri di tre casali: Santa Laura, Santa Lucia e Trisaia. Alcuni narrano che qui vigeva uno strano governo: gli ecclesiastici governavano sui contadini, i cui figli. per “vocazione”, potevano diventare anch’essi sacerdoti. Uno di questi monaci, nato povero ma in quel periodo padrone di quelle terre, organizzò una cerimonia in onore delle sante. Durante la festa, una zingara volle predire il futuro. La scelta s’indirizzò verso il monaco ma, all’improvviso, la zingara fuggì via gridando. Il monaco chiese il perché di quel comportamento, ed ella gli svelò di averlo riconosciuto come suo figlio per la somiglianza col padre; questi, morto nel casale di Santa Laura, aveva affidato il figlio a una famiglia di contadini. Da allora, tutti i figli degli zingari furono accolti con gioia nei tre casali che portarono alla nascita di Rotondella.



La nascita di Metaponto, uomini epici e luoghi leggendari.


Dopo tre giorni e tre notti, il mare era sempre più nero di sdegno e di tempesta. Dalle 90 navi partite da Troia per tornare a Pilo, l'unica che non fosse stata ancora travolta dai flutti furibondi era quella sulla quale si trovava Nestore, il vecchio re cui il fato non voleva concedere la gioia del ritorno. Erano con lui i più arditi, e tra essi Epeo, il prodigioso costruttore del cavallo di legno, nel cui ventre s'erano nascosti i greci, che, una volta entrati nella città di Troia, ne avevano aperte le porte agli assedianti ed avevano appiccato il fuoco alle case ed alle mura. ( A Epeo è collegato la fondazione della antica e scomparsa città di Lagaria presumibilmente sul monte Coppolo nei pressi di Valsinni) Ormai andavano attenuandosi le ultime speranze di salvezza. I cavalloni erano sempre più alti e minacciosi, i rematori erano stanchi. Il vecchio re, ritiratosi ad un estremo della nave, s'era seduto col capo fra le mani, come percosso dal furore del suo destino. Ad un tratto, si sentì prima un crepitio di assi che si rompevano, poi un urlo altissimo dei naviganti. S'era spezzato il timone, e la nave, senza più direzione, or s'alzava sui flutti furibondi, or si inabissava a precipizio. Non c'era più speranza. La navigazione continuò così, tutta la notte, secondo il capriccio delle onde in tumulto. Verso l'alba, mentre saliva un vago chiarore nel cielo nerastro, Nestore vide, a poca distanza, sulla spiaggia di un'isoletta rocciosa, qualcuno che faceva segni dalla riva. L'ultimo a scendere fu il re, pallido, con le vesti lacere e le mani sanguinanti. La donna che si gettò ai suoi piedi implorando soccorso, era Menalippa, la figlia di Eolo Dio dei venti, che, contro il volere del padre, aveva segretamente sposato Nettuno Dio del mare, avendone due figlioli. Eolo, adirato, aveva fatti abbandonare in una campagna i bambini perché le belve li divorassero, ed aveva fatta prima accecare e poi deportare la figlia nell'isola romita. Nestore sentì un'immensa pietà per lo stato di quell'infelice. Fece trarre dalla nave ormai sconquassata un pò di cibo per rifocillarla e le disse parole di speranza e di conforto. Il mare intanto s'era placato. Dopo un giorno di riposo, i naufraghi pensarono alla possibilità di rimettersi in viaggio. Epeo curò i lavori di restauro della nave, che, dopo sei o sette giorni, con un timone improvvisato fu in grado di riprendere il mare, così, alla ventura, perché nessuno dei naviganti conosceva né il luogo in cui si trovavano, né la rotta per il ritorno alla patria diletta. Al termine di due giorni di traversata, mentre il sole tramontava ed un vago senso di sconforto già cominciava a tormentare il cuore dei naviganti, si vide in lontananza una lunga striscia di terra. Nestore fece volgere il timone verso di essa e, poco più tardi, gli stanchi superstiti del tragico viaggio, con Menalippa che li aveva seguiti, approdarono verso la foce di un fiume, e vi si fermarono per passare la notte. L'indomani, lasciati i compagni a custodia della nave, Nestore, Epeo e Menalippa, cominciarono a percorrere la campagna in cerca di qualcuno al quale potessero chiedere notizie del luogo in cui si trovavano, ed indicazioni per la ripresa del viaggio. Cammina, cammina, cammina, non trovarono anima viva. Verso sera, stanchi, sconfortati, rotti dalle preoccupazioni e dalla fatica, stavano per riprendere la via del ritorno alla nave, quando, da una sodaglia vicina, sentirono prima un gemito e poi un lungo muggito. Si volsero dalla parte donde era venuto il gemito con passo risoluto, e, presso un cespuglio, videro due bambini che una mucca nutriva con il suo latte e riscaldava con l'alito caldo delle sue narici. Menalippa diede un grido acutissimo e si precipitò a sollevare dalla terra umida i due bambini, stringendoli furiosamente al suo seno. Nestore, turbato e commosso si volse a guardarla e rimase stupefatto. Essa non era più cieca. Nettuno le aveva fatto miracolosamente riacquistare la vista, e la prima cosa che le aveva dato il conforto di vedere era stato il volto sorridente dei figliuoli, che la poverina copriva di lacrime e di baci. Intanto annottava. Andiamo, disse Nestore preoccupato di raggiungere i compagni che aspettavano sulla riva. Andiamo, risposero Epeo e Menalippa. Ma mentre s'avviavano, videro avvicinarsi il giovane pastore, al quale Eolo aveva ordinato di portare i bambini in campagna e di abbandonarli. Il pastore che aveva solo in parte eseguito gli ordini ricevuti, tutte le sere, dopo il tramonto, li veniva a prendere e li portava nella sua capanna per tenerli durante la notte al riparo dalle intemperie. La mattina poi, prima dell'alba, li riportava sotto lo stesso cespuglio, temendo che Eolo durante il giorno, mentre egli menava al pascolo le bestie, andasse nella capanna a trucidarli. Il pastore riconobbe Menalippa e le baciò le mani piangendo. La povera donna, con parola strozzata dai singhiozzi, ringraziava quasi balbettando il salvatore dei suoi figli. Nestore ed Epeo s'erano tratti in disparte pallidi e pensosi, mentre nei loro occhi tremavano lacrime cocenti di profonda commozione. Nei giorni successivi ogni indagine fu vaga per avere indicazioni sulla via del ritorno. Eolo poi, adiratissimo, suscitò un'altra furiosa tempesta, che sollevò ripetutamente la nave mandandola a fracassarsi contro gli scogli rocciosi della riva. Nestore, che era il più saggio degli uomini del suo tempo, aveva però previsto questa atroce vendetta del Dio dei venti ed aveva fatto trarre dalla nave tutto quello che c'era: le provviste, le armi ed il preziosissimo bottino che i vincitori di Troia avevano portato dalla città incendiata e distrutta. Fece caricare tutto su di un carro trainato dai buoi del pastore che aveva avuto pietosa cura dei figli di Menalippa, e, guidato da lui, andò a fondare una nuova città che si chiamò Metaponto. I figli di Menalippa, Eolo e Beoto, divenuti adulti, fecero di tutto per rendersi degni dell'affetto di Nestore, e quando egli, molti anni dopo, morì, lo seppellirono con Epeo sotto una delle colonne del tempio che il Re aveva fatto costruire, collocando nel sepolcro tutto l'oro e l'argento che essi avevano portato da Troia.


Il mulino dell'oro Pochi anni or sono, eseguendosi degli scavi in quello che fu il tempio di Metaponto, sotto il piano della nona colonna dell'ala destra, furono rinvenuti degli avanzi delle ossa di due cadaveri, che qualcuno disse essere quelli di Nestore e di Epeo. In prossimità di questa colonna, tra pèietra e pietra, anche oggi si vede venir fuori da un crepaccio un fico selvatico. Nella campagna metapontina si racconta che le radici di questo fico siano molto profonde e vadano a finire sulla volta di un mulino sotterraneo che incessantemente macina rimacina l'oro che Nestore ed Epeo portarono da Troia. Quando, nelle notti di tempesta, il mare mugge furibondo, quando le acque del Bradano e del Basento in piena, o per le piogge dirotte o per il disgelo delle nevi, precipitano al mare con rumore cupo e pauroso; quando il vento urla squassando i pochi alberi della vasta pianura, i pastori fuggono terrorizzati. Il muggito del mare, il fragore dei fiumi, la ruggente furia della tempesta, è per essi il rumore cupo del mulino sotterraneo che, implacabile, frantuma l'oro dei troiani. Da "LA BASILICATA" di F. Di Sanza - (1928)



San Valentino ...il Santo di Abriola


Narra la leggenda che ad Abriola, in un tempo ormai lontano, scoppiò una terribile carestia. Avvertito da un Angelo, “Valentino il Romano” organizzò un convoglio di carri di grano provenienti dalla Puglia. I mercanti, pagati in anticipo con un prezioso anello d’oro, portarono la merce nel paese lucano, ma invano chiesero di Valentino, nessuno lo conosceva. Sorpresi e delusi presero la via del ritorno, ma entrando in una chiesa del posto riconobbero, su un altare, la statua del misterioso signore che li aveva contattati.



La leggenda parla di S. Antonio Abate


Dalla Befana a Carnevale, solo dieci giorni dopo l'Epifania cade un'altra importante ricorrenza: quella di S. Antonio Abate. Ed ha inizio il periodo di Carnevale... La leggenda parla di S. Antonio Abate come di un eremita che scelse di dedicarsi a Dio passando la sua vita in un deserto. Lungo il cammino si vide seguire da animali di vario genere. Cercò di scacciarli, ma ogni tentativo fu vano: essi lo seguirono nel romitaggio e restarono con lui. Di qui la consuetudine in Basilicata di far benedire soprattutto gli animali più utili per la sopravvivenza familiare e per la conduzione dei campi, il 17 Gennaio di ogni anno.



Il lupo mannaro (Lu lupi minnaro)


Lu dupi minaro o Lu lupi minnaro era leggenda paurosa che turbava la gioia del santo Natale. Chi nasceva in quella notte, specialmente quando si sentivano i primi tocchi di campane dell’ufficio, nasceva dupiminaro. Ma che mai significava questa parola? Fatto grande, quando lo assaliva la stizza del male e del furore, il disgraziato usciva di casa a mezzanotte, ed a li croscevie, dove si intersecano a croce strade e quintane, si voltolava per terra con urla feroci, come bestia rabbiosa e selvaggia. […] Però se un uomo coraggioso l’avesse punto, da fargli spicciare poche stille di sangue, cessava subito la malattia.